La favorita

Una “Favorita” a metà al Regio di Parma

L’opera donizettiana, non più tanto rappresentata negli ultimi decenni, richiede interpreti all’altezza, come si sono dimostrati Simone Piazzola, Celso Albelo e il mezzosprano Anna Maria Chiuri. Un po’ datata la direzione di Matteo Beltrami e problematica la regia di Andrea CigniDavide Annachini

Tra le numerosissime opere di Donizetti La Favorita rappresenta uno di quei pochi titoli mai spariti dai cartelloni teatrali, anche se la sua diffusione negli ultimi decenni si è diradata a causa della penuria di interpreti all’altezza. Per il mezzosoprano, il baritono e soprattutto il tenore si tratta in effetti di un banco di prova non solo vocale ma anche stilistico, in cui eleganza, misura, nobiltà espressiva costituiscono qualità imprescindibili quanto gli acuti, la tecnica o la bella voce.

Lo si è capito chiaramente al Teatro Regio di Parma – dove l’ultima volta, nel lontano 1982, la Favorita aveva avuto il privilegio di un protagonista indimenticabile come Alfredo Kraus – in una nuova coproduzione con il Teatro Municipale di Piacenza andata in scena nella versione italiana dell’opera, approntata dopo la prima parigina del 1840 e così conosciuta in tutto il mondo, anche se in anni recenti messa in ombra dalla sorella francese, riemersa come autentica rarità.

Inutile pensare alla Favorita in assenza di un tenore quantomeno con i do acuti in tasca, visto che la parte di Fernando li pretende a man bassa ma, come si è detto, di pari passo a una linea vocale impeccabile, ad un’espressione estatica e al tempo stesso eroica, ad un uso sapiente dei colori. Celso Albelo in buona parte è riuscito a rispondere a queste richieste, con una maggiore cura del canto a mezzavoce e del legato rispetto a un tempo, con uno slancio generoso e con l’abituale padronanza degli acuti, forse più potenti ma meno spontanei di prima e con uno sgradevole effetto finale “a strappo” tale da vanificare la bellezza dell’intera nota. La parte del re di Castiglia è storicamente considerata il non plus ultra per un baritono “nobile” e Simone Piazzola l’ha saputa risolvere con un’emissione levigata, bellissimo timbro, autorità espressiva. Se al suo Alfonso avesse corrisposto altrettanta nobiltà scenica, con una fisicità più contenuta e magari depurata dall’ossessivo tic di sfiatare il naso prima di attaccare ogni frase, si sarebbe potuto parlare di un’interpretazione di riferimento. Poteva stupire un mezzosoprano tendente al contralto come Anna Maria Chiuri in una parte di mezzosoprano acuto come Leonora, ma l’intelligenza della cantante è riuscita a far valere i cantabili con la pienezza del timbro e a dare rilievo al ruolo con apprezzabile sensibilità, facendo passare in secondo piano qualche suono aspro in alto e compensando con l’unica autentica interpretazione della serata. Monolitico nella sua tonante ieraticità il Baldassarre di Simon Lim, delicata ed elegante l’Ines di Renata Campanella, sottotono il Don Gasparo di Andrea Galli e buona la prestazione dell’Orchestra Filarmonica Italiana, insieme al Coro del Teatro Municipale di Piacenza preparato da Corrado Casati.

La direzione di Matteo Beltrami puntava a un’incisività fortemente drammatica e a un’asciuttezza teatrale che riportava a come si interpretava Donizetti sino agli anni ’50, prima del fondamentale recupero filologico, stilistico ed espressivo del repertorio della prima metà dell’Ottocento. Di conseguenza pochissimi “da capo”, sonorità corpose, qualche taglio di troppo, una certa allergia al gusto belcantistico, dal quale lo stesso direttore intendeva affrancare l’opera, stando almeno a quanto affermato nelle note pubblicate nel programma di sala.

Nello stesso programma anche Andrea Cigni ha voluto esporre le sue idee registiche (ma quando gli artisti smetteranno di spiegare le loro scelte al pubblico, come a dover fare chiarezza su un lavoro che potrebbe non averne per i più?) ma, anche a lettura ultimata, tornava difficile trovare una logica o quantomeno un’adesione al suo spettacolo, tendenzialmente velleitario. Così la storia di questo melodrammatico triangolo sentimentale, in cui tutti si trovano impossibilitati ad amare chi amano, ha problematicamente trovato modo di emergere in un’aula di anatomia (progettata da Dario Gessati) dall’asettica atmosfera ospedaliera (luci di Fiammetta Baldiserri), in cui i personaggi venivano trasportati in barella e poi pesantemente ammantati dei rispettivi costumi di scena (di Tommaso Lagattolla).

Il pubblico parmigiano dev’essere rimasto leggermente interdetto, scegliendo alla fine di rivolgere gli applausi più convinti alla compagnia di canto e agli acuti esplosivi di Albelo.

Visto al Teatro Regio di Parma il 27 febbraio

 

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