Thais

Thaïs espressionista alla Scala: ma a convincere è la musica

L’opera di Massenet torna alla Scala dopo ben ottant’anni, mettendo in luce un cast canoro e una direzione in grado di ammaliare il pubblico scaligero – Davide Annachini

Thaïs, opera di Massenet di rara circuitazione da noi ma di lunga tradizione in Francia, è tornata al Teatro alla Scala di Milano dopo ben ottant’anni, in un’edizione applauditissima che ha consentito di fare il punto su un lavoro di non pochi meriti. Composta nel 1894 e riveduta quattro anni dopo nella versione che diventerà definitiva, l’opera si ispira al romanzo di Anatole France che nell’antica Alessandria d’Egitto vede il giovane cenobita Athanaël impegnato nella disperata impresa di redimere la cortigiana Thaïs, con il risultato di farne una Maddalena redenta ma rimanendo a sua volta preda del desiderio carnale per la donna destinata a scontare il suo passato con la morte purificatrice. Tra sesso e misticismo, seduzione e spiritualità, Massenet esalta il mito della femme fatale che tra le decadenti atmosfere di un Oriente da Sodoma e Gomorra attinge le sue suggestioni dal simbolismo visionario di Gustave Moreau, dalle incantate gessosità parnassiane di Puvis de Chavannes e soprattutto dal prezioso erotismo di Klimt. La musica di pari passo sfrutta tutte le corde tipiche di Massenet, già ampiamente sperimentate nei suoi capolavori (Werther e Manon) ma in particolare nelle opere a sfondo mistico-orientale (Herodiade, Esclarmonde, Le roi di Lahore, Le Mage), e cioè il sentimento, il lirismo, le timbriche esotiche, l’ineffabile voluttà strumentale. E anche se, ascoltandola oggi, il sentimento può declinare talvolta in sentimentalismo, come l’esotismo in zuccherosità, Thaïs riesce comunque a conservare un suo impatto affascinante e teatrale, nonostante nella memoria restino fondamentalmente solo due pagine, l’”aria dello specchio” – pervasa da un narcisismo autoerotico, in cui la protagonista contempla la sua bellezza con l’inquietudine di poterla smarrire – e la celebre Méditation, interludio con assolo di violino di struggente e languidissima bellezza.

A trarre le fila di una partitura così suggestiva e al tempo stesso insidiosa, la Scala ha chiamato Lorenzo Viotti, direttore sempre più convincente nel repertorio francese, di cui è in grado di sottolineare le finezze e di sposare le fragilità con convinta adesione, estrema eleganza e decisa personalità, nell’appropriarsi dei momenti orchestrali e corali con incisività vitalissima e risolutiva quanto nel sostenere il canto con ammirevole sensibilità e misura. Scritta per Sibyl Sanderson, soprano di caratura lirica ma di estensione abnorme, la parte di Thaïs richiede una vocalità piena, luminosa e pronta svettare sui ripetuti re sovracuti, oltre che un’interprete intensa e seducente. Marina Rebeka ha risposto a tutte queste richieste come al momento forse nessun altro soprano, per sicurezza vocale, fascino d’interprete, physique du rôle, al punto da giustificare da sola la ripresa di un titolo così raro e da assicurarsi – insieme a Viotti – un meritatissimo successo personale. Ma bravissimi sono stati anche Lucas Meachem – un Athanaël imponente e di bellissima vocalità, morbida e suadente, come di ottima aderenza espressiva – e Giovanni Sala – tenore duttile e incisivo nel delineare l’ambiguo Nicias, che in questa regia sembrava occhieggiare alla fluidità estetica di un Damiano dei Maneskin. All’altezza tutti gli interpreti di contorno, Caterina Sala (Crobyle), Anna-Doris Capitelli (Myrtale), Valentina Pluzhnikova (Albine), Federica Guida (la Charmeuse), Insung Sim (Palémon), Jorge Martinez (un serviteur), Luigi Albani, Renis Hyka, Michele Mauro, Andrea Semeraro, Massimo Pagano, Giorgio Valerio (Cénobytes), insieme ai ballerini Emanuela Montanari e Massimo Garon impegnati nella suggestiva coreografia di Ivo Bauchiero sulla musica della Méditation. Ottima la prestazione dell’orchestra e del coro scaligeri, quest’ultimo preparato da Alberto Malazzi.

Lo spettacolo di Olivier Py anteponeva alla cifra Liberty e decadente dell’opera una visione crudamente espressionista, ambientando il tutto nello spaccato di un sordido teatro in stile Crazy Horse, siglato da ballerine memori delle maliziose nudità di Rosa Fumetto, atmosfere da bordello e luminarie da luna park. Una lettura pesantemente caricata e spesso incline a una volgarità kitsch, vuoi nelle scene sbrigativamente sagomate e nei vistosi costumi circensi di Pierre-André Weitz, vuoi nelle raggelanti luci al neon di Bertrand Killy. Una regia soprattutto insensibile alla natura raffinata della musica di Massenet e allo stile di un’opera indissolubilmente legata all’estetismo della sua epoca, quanto poco incline a rivisitazioni che cerchino di scavare in un qualcosa che forse non c’è.

Grande successo per tutta la componente musicale.

Visto al Teatro alla Scala di Milano il 19 febbraio. Ultima replica mercoledì 2 marzo