Torna Aroldo, rara opera verdiana, in un tour nei bei teatri municipali dell’Emilia Romagna. L’ha vista per noi Davide Annachini
Tra le opere meno rappresentate di Giuseppe Verdi, Aroldo si colloca nelle prime posizioni, persino rispetto all’altrettanto desueto Stiffelio, di cui nel 1857 fu il rifacimento di sette anni successivo, approntato per motivi di censura e in occasione dell’inaugurazione del nuovo teatro di Rimini. I motivi di censura riguardavano al solito il soggetto, che in Stiffelio toccava un argomento a dir poco scabroso e che ancora per più di un secolo lo sarebbe stato per l’Italia intera, quello del divorzio, nello specifico tra un sacerdote protestante e la moglie adultera nella Germania di primo Ottocento. Se era stato possibile battezzare l’ardita novità nell’asburgica Trieste, la circuitazione dell’opera nei teatri italiani diventava chiaramente impossibile e per l’occasione riminese Verdi pensò bene di retrodatarla all’oscuro Medioevo sassone, rifacendone completamente il quarto atto. Il sacerdote diventava quindi un crociato di ritorno dalla guerra, che dai santi propositi cristiani passava agli intransigenti furori punitori verso la moglie infedele senza troppe sfumature, per poi cercare pace come eremita sulle sponde di un lago a cui sarebbe approdata la donna ripudiata e in ultimo da lui perdonata a suggello di un inaspettato lieto fine. Ovviamente a livello drammaturgico questo improbabile pasticcio del fedele librettista Francesco Maria Piave non poteva competere con la coraggiosa modernità di Stiffelio, ma la musica manteneva la sua bruciante forza espressiva e con il nuovo atto anticipava temi che avrebbero trovato sviluppo nei capolavori successivi, in primis la tempesta dell’Otello.
Nel rilanciare l’opera su iniziativa del rinato Teatro Galli di Rimini – rimasto dai bombardamenti del 1943 una ferita aperta per la città romagnola – la nuova produzione di Aroldo ha visto coinvolte le fondazioni di Ravenna, Piacenza e Modena, città quest’ultima dove al Teatro Comunale Pavarotti-Freni l’opera ha riscosso, se non proprio gli abituali pienoni, di sicuro un successo calorosissimo.
L’inaugurazione riminese ha spinto gli artefici dello spettacolo Emio Sala ed Edoardo Sanchi a confezionare addirittura una nuova drammaturgia, legata alla distruzione del Teatro Galli e trasportata agli anni del Fascio, in cui Aroldo invece che dalla crociate tornava dalle conquiste colonialiste dell’Etiopia. Da qui alcune modifiche nel libretto – vedi la trasformazione dell’aria del tenore da “Sotto il sol di Siria ardente” a “Sotto il sol d’Abissinia” – che per quanto arbitrarie non sarebbero state così censurabili se alla fine non ci si fosse scontrati contro l’irrisolta questione di fondo, quella del divorzio, tabù incongruente con l’Italia non solo del Ventennio. Dato per scontato che la posticcia ambientazione medievale non sarebbe stata risolutiva per il rilancio di un’opera teatralmente già poco credibile, si è assistito volentieri a questa trasposizione dalle atmosfere trionfalistiche di stampo fascista – tutte all’insegna di “Patria, Sacrificio, Onore” – e dai risvolti psicologici dei personaggi di sicuro più intriganti e credibili in chiave novecentesca. Hanno contribuito alla restituzione di uno spettacolo coerente e a suo modo incisivo le scene in stile Littorio di Giulia Bruschi come le divise militari e le camicie nere di Raffaella Giraldi ed Elisa Serpilli, insieme alle luci di Nevio Cavina, ai video di Matteo Castiglioni, ai movimenti scenici di Isa Traversi.
La forza di questa produzione stava comunque nella componente musicale, che ha brillato per slancio, aderenza e convinzione, ingredienti fondamentali per restituire credibilità ad un lavoro che per quanto alterno svela le immancabili zampate di un genio come Verdi, all’epoca per altro già forte di capolavori come la trilogia Rigoletto-Traviata-Trovatore. Il tenore Luciano Ganci – già Stiffelio nella memorabile edizione parmigiana firmata da Graham Vick – è stato un protagonista di grande impatto per la vocalità ampissima, lucente ed eroica, in grado di risolvere un ruolo un po’ tagliato con l’accetta ma già in odore di Otello con una tenuta vocale rara e con alcune pregevoli intenzioni espressive. Bravissima anche Roberta Mantegna nell’insidiosa parte di Mina, contraddistinta da una scrittura ipertesa che il soprano ha affrontato con acuti limpidissimi, con una franchezza vocale ammirevole e con un abbandono patetico estremamente suggestivo. Di pari livello la prestazione di Vladimir Stoyanov come Egberto (ennesima incarnazione verdiana della prediletta figura paterna), interprete dal canto nobile e accorato quanto fiero e vendicativo, e validi tutti gli altri, da Adriano Gramigni (Briano) a Riccardo Rados (Godvino), a Giovanni Dragano (Enrico). Manlio Benzi – alla guida dell’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati – ha dimostrato di credere profondamente in questo recupero, dirigendo con passione, slancio, sensibilità, come a dimostrare che non esiste veramente un Verdi minore ma semmai un Verdi da riabilitare tout court. E la risposta entusiasta del pubblico è sembrata dargli pienamente ragione.