I Puritani

I Puritani escono dalle tombe

Opera non semplice da allestire, l’ultima fatica di Bellini, che l’Opera di Firenze ha affrontato con risultati musicalmente attendibili e godibili dal pubblico. Bene i cantanti, regia un po’ cerebrale ma non priva di suggestioni. Vitali orchestra e coro – Duccio Anselmi

I Puritani non sono certo un’opera da mettere in cartellone a cuor leggero: l’ultima fatica di Bellini ha storicamente costituito un banco di prova per le ugole più esclusive, in grado di sfidare tessiture stratosferiche e di lanciarsi su acuti al limite delle possibilità umane. Questo è un problema soprattutto per i tenori, che all’epoca cantavano le note alte in falsetto ma che da più di un secolo non possono evitare l’emissione a voce piena, pena il massacro da parte del pubblico, mentre per i soprani si pone più una questione di tipo virtuosistico e di confronto con modelli di riferimento, come la Callas e la Sutherland, che in quest’opera hanno detto un po’ tutto quello che c’era da dire. E soprattutto va considerato l’aspetto stilistico di una partitura estremamente nobile e raffinata, tale da pretendere un rispetto assoluto dell’esecuzione primottocentesca e di un’espressività tutta filtrata attraverso la sensibilità romantica, che fanno dei Puritani un’opera quasi metafisica nella sua dimensione araldica e sospesa, in cui passione e delirio non devono mai scadere ad un livello realistico quanto essere evocati con aristocratica stilizzazione.

In un momento non certo favorevole a imprese rischiose, l’Opera di Firenze ha riproposto questo capolavoro senza ambire all’edizione memorabile ma garantendo una produzione attendibile, che ha avuto il merito di far riascoltare una musica così bella e ormai di cosi difficile esecuzione. Nel cast che si alternava al primo sono emerse alcune giovani voci molto promettenti e che di fronte a ruoli così improbi hanno saputo dimostrare di far valere non pochi meriti e una rispondenza stilistica di tutto rispetto.

Il soprano Maria Aleida è stata un’Elvira delicata e sensibile, in grado di riscattare una voce un po’ esigua nel volume e di colore poco smaltato nei centri, ma estesissima in alto e agguerrita nelle agilità, tanto da stupire nelle variazioni della “polacca” e del “Vien diletto” per la disinvoltura con cui si è inerpicata su sovracuti vertiginosi – come anche nel caso del fa sostenuto a chiusura del primo atto – che, per quanto da considerarsi optional a piacere, ci hanno ricordato come in quest’opera un certo atletismo vocale non sia del tutto inopportuno. Per vocalità la sua Elvira faceva da perfetto pendant all’Arturo di Jésus Léon, tenore di voce leggera e garbata, in grado di onorare gli acuti della parte se non proprio con squillo quantomeno con disinvoltura e di delineare un personaggio malinconico e nostalgico, ma anche di fierezza eroica nello splendido duetto con il rivale Riccardo, che l’ha trovato particolarmente convincente. In quest’ultimo ruolo Julian Kim ha messo in luce una voce di baritono ottimamente impostata, timbrata e lucente, oltre a un canto curato ed elegante, forse da limare ancora nell’uso delle mezzevoci ma che rivela già un cantante su cui puntare per il futuro. Nobile e toccante il Giorgio di Riccardo Zanellato, una presenza vocale di rilievo in questo cast, e molto azzeccati gli interpreti di fianco, dallo scolpito e suggestivo Gualtiero di Gianluca Margheri all’incisiva Enrichetta di Martina Belli, per arrivare al nitido Bruno di Saverio Fiore.

Matteo Beltrami ha diretto con particolare vitalità l’orchestra e il coro fiorentini, dando alla musica di Bellini una lettura forse meno elegiaca e più accesa, ma complessivamente efficace quanto a tenuta narrativa e a tensione espressiva, come rispettosa dello stile esecutivo, che ha contemplato alcuni tagli inevitabili nelle edizioni dal vivo, altrimenti insostenibili per i cantanti per il peso delle difficoltà vocali.

L’emergente regista Fabio Ceresa ha firmato uno spettacolo forse un po’ cerebrale nella scelta interpretativa ma non privo di suggestioni: tra le scenografie dagli incombenti sottinsù di architetture gotiche disegnate da Tiziano Santi e grazie ai raffinati, anche se talvolta sovraccarichi, costumi di Giuseppe Palella, la sua regia si è mossa in un’Inghilterra cimiteriale, brumosa e cupa (complici le luci spettrali di Marco Filibeck), in cui alcuni personaggi uscivano dalle tombe scoperchiate e dove il delirio della smarrita Elvira diventava la devastazione mentale di un intero popolo, che all’ultimo, invece di gioire per la conclusione a lieto fine, soccombeva in un’ecatombe generale. Soluzione piuttosto arbitraria ma coerente con una visione concentrata più che sulla storia sulla lacerazione psicologica dei personaggi.

Ottimo il successo di pubblico, che dopo un iniziale distacco si è progressivamente lasciato coinvolgere dall’emozione della musica e dalla convinzione degli interpreti.

Visto all’Opera di Firenze il 1° febbraio. Ultima replica giovedì 10 febbraio 2015. Foto di Pietro Paolini/Opera di Firenze

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I puritani
Opera seria in tre parti di Carlo Pepoli
Musica di Vincenzo Bellini

ELVIRA Maria Aleida
LORD ARTURO TALBO Jesùs Léon
SIR RICCARDO FORTH Julian Kim
SIR GIORGIO Riccardo Zanellato
LORD GUALTIERO VALTON Gianluca Margheri
ENRICHETTA DI FRANCIA Martina Belli
SIR BRUNO ROBERTON Saverio Fiore

DIRETTORE Matteo Beltrami
REGIA Fabio Ceresa
SCENE Tiziano Santi
COSTUMI Giuseppe Palella
LUCI Marco Filibeck