La Straniera riemerge dall’oblio ed è successo

Al Maggio Musicale Fiorentino occasione d’oro per gli appassionati del belcanto questa Straniera belliniana, pura espressione del romanticismo nascente nel teatro musicale italiano che merita la riscoperta.- Davide Annachini

Passare dal Lear di Reimann alla Straniera di Bellini è stata per il Maggio Musicale Fiorentino – e soprattutto per Fabio Luisi, che si è assunto l’onere di dirigere due opere così diverse – la dimostrazione di una versatilità di stili e di proposte in linea con quella che giustamente dovrebbe essere la cifra di un festival di prestigio come questo. Tanto più quando per entrambi i titoli si tratta di autentiche rarità, anche nel caso dell’opera belliniana, che a Firenze si era rappresentata solo una volta alla Pergola nel 1830, l’anno seguente a quello del suo debutto milanese. Sembra strano che il più grande successo scaligero del giovane Bellini (il Pirata ne aveva rappresentato la rivelazione, la Straniera la conferma), in cui si veniva a identificare non solo il talento straordinario di un musicista poco più che esordiente ma soprattutto l’ideale prototipo della nascente opera romantica in Italia, abbia poi goduto di una fortuna assai impari ai suoi meriti, restando sempre entro i margini di un repertorio di nicchia.
E se non sono valsi gli sforzi di alcune eccelse interpreti – in primis Renata Scotto, seguita dalle isolate performance della Caballé, dell’Aliberti, della Fleming (purtroppo non della Devia) – a portarla stabilmente nei cartelloni, quantomeno loro è stato il contribuito di rivelarne le rare bellezze, ardue da scoprire e difficilissime da restituire.

In effetti La Straniera è opera del rimpianto, della nostalgia, del mistero, che non trovano soluzione se non nel precipitoso finale, in cui si consuma la tragica fine dell’amore impossibile di Alaïde, destinata a regnare ma al contempo a perdere l’amato oggetto della sua segreta passione. La sua nobile tristezza, il suo riserbo, la sua persistente rinuncia ne fanno un’eroina dal fascino impenetrabile e struggente, in grado di trascolorare dallo smarrimento del delirio al risveglio rabbioso dell’invettiva nei due meravigliosi finali d’atto. Un personaggio e un’opera che, complici le atmosfere silvestri, notturne e tempestose dell’ambientazione, esprimono come pochi altri quell’idea di Sturm und Drang all’italiana che avrebbe aperto la strada a Norma, a Lucia di Lammermoor e a tutto il melodramma romantico della prima metà dell’Ottocento.

Certo, la musica tende a prendere il volo tutte le volte che è in scena la protagonista, ricadendo in una certa convenzionalità dove a figurare sono gli altri personaggi, mai confinati da Bellini a ruoli secondari come in questo caso. Di conseguenza fondamentale è la presenza di un’autentica fuoriclasse, in grado di cantare nel piano e nel pianissimo per quasi tutta l’opera, per poi lanciarsi su tessiture spinte e acutissime (almeno sino al re) senza mai perdere attenzione alla varietà degli accenti, vuoi intimi e infinitesimali, vuoi brucianti e arroventati. Non a caso Gina Cigna – che ne fu rara interprete alla Scala nel 1935 – la considerava impegnativa come tre Norme messe assieme, ma d’ altronde si trattava di una voce immensa e drammatica calata a forza nel Belcanto. La Scotto dimostrò invece che non era il volume a dare peso al personaggio, quanto semmai la dolcezza coloristica e la penetrazione espressiva, e ora a Firenze la sua allieva, Salome Jicia, è sembrata ereditarne la lezione. Voce non voluminosa ma intensa e incisiva, notevole duttilità nel gioco delle mezzevoci, coloratura di forza, estensione ragguardevole (fatta eccezione per una certa tensione negli acuti estremi) e soprattutto personalità interessante sono state le qualità dell’ Alaïde del soprano georgiano, che ha raccolto un successo personale meritatissimo e un’importante conferma per il suo promettente futuro, che la vedrà a breve cimentarsi in un altro temibile ruolo, Semiramide al Rossini Opera Festival.

Buona tutta la compagnia, a partire da Dario Schmunck, elegante nella linea e sensibile nella caratterizzazione dell’inquieto Arturo, ruolo scomodo e scarsamente gratificante come nessun altro scritto per tenore da Bellini; autorevole nel fraseggio e timbrato nell’ espansione baritonale il Valdeburgo di Serban Vasile, accurata ed elegante l’ Isoletta di Laura Verrecchia, validi Shuxin Li (Montolino), Adriano Gramigni (Priore), Dave Monaco (Osburgo),

Fabio Luisi ha diretto con grande adesione una partitura insidiosa, che, nel persistere nei toni elegiaci e intimisti, può rischiare facilmente di scadere nella monotonia, per non dire nella noia. La tensione della narrazione, la trasparenza degli accompagnamenti, l’eleganza dell’espansione melodica sono state i punti di forza dell’interpretazione puramente belliniana di Luisi, che ha saputo sottolineare con scatti vibranti e incalzanti alcuni finali di scene con effetto risolutivo. Ottima risposta ha avuto come sempre dall’ Orchestra e dal Coro del Maggio, preparato da Lorenzo Fratini.

La regia di Mateo Zoni è riuscita a cogliere in certe atmosfere oniriche l’aspetto misterioso ed enigmatico della storia, attraverso proiezioni (di Daniele Ciprì) ed elementi scenici stilizzati, corredati da superfici specchianti e da costumi che nelle loro linee, ispirate ora al Medioevo ora a tute spaziali, contribuivano a una sorta di straniamento visivo, non del tutto improprio in un’opera così singolarmente proiettata nella sfera dell’inconscio. Certo, l’evidente economia dei mezzi a disposizione ha evidenziato più le intenzioni che i risultati, per la povertà dell’allestimento (di Tonino Zera e Renzo Bellanca) e l’infelicità di certi costumi (di Stefano Ciammitti), che per quanto belli sulla carta molto meno lo erano sulla scena, come quello imbarazzante di Alaïde del secondo atto – una sorta di Paco Rabanne a strisce rosse di plastica trasparente – che avrebbe sfigurato sul fisico di qualsiasi cantante lirica.
Nonostante la difficoltà della proposta, l’opera è piaciuta moltissimo, con grandi consensi per gli interpreti e soprattutto per la Jicia.

Visto a Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, il 19 maggio

foto di Gianluca Monasta