La Fenice riemerge dalle acque con un trionfante Don Carlo

Orgogliosamente svettante sulla tragedia che l’aveva appena colpita, Venezia celebra alla Fenice il suo ruolo di capitale della musica con un Don Carlo dove musica e teatro si sposano alla perfezione. – Davide Annachini

L’inaugurazione di stagione della Fenice di Venezia – emersa coraggiosamente dagli attacchi dell’acqua alta – ha dimostrato l’intelligenza di un teatro in grado di mettere in scena un titolo non facile come il Don Carlo di Verdi riuscendo a darne un’esecuzione perfettamente equilibrata e originale, da prendere come esempio di consapevole programmazione artistica. Quest’opera costituisce un banco di prova per direttore, cantanti, regista, che devono fare i conti con il lavoro più elaborato a livello psicologico scritto da Verdi, all’ interno di una dimensione storico-politica, sentimentale e di intricate relazioni tra i personaggi tali da pretendere non solo un’esecuzione all ’altezza o una messinscena sfarzosa quanto una lettura particolarmente scavata e intimista, grazie alla quale Don Carlo può rivelare tutta la sua forza espressiva e modernità teatrale.

Alla Fenice tutti questi presupposti erano presenti e rispondevano a un direttore della statura di Myung-Whun Chung, di un regista geniale come Robert Carsen e di un cast di giovani ma affermati cantanti, per lo più inediti nei rispettivi ruoli.

Di Chung si è più volte sottolineata l’incredibile maturazione artistica, che soprattutto in Verdi lo ha imposto come interprete personalissimo e profondo, tanto più in un’opera come questa, dove l’analisi intima dei personaggi, l’infelicità del loro vivere, lo slancio eroico disperato o trattenuto sono stati restituiti con una direzione sofferta, toccante, magnificamente “cantata” negli struggenti assoli strumentali che introducono molte pagine, grandiosa nelle scene corali. In particolare gli accompagnamenti al canto hanno dato la cifra di un’esecuzione tutta improntata allo scavo psicologico dei personaggi, aspetto, come già detto, fondamentale in questa più che in ogni altra opera verdiana.

E’ stato questa anche la chiave di lettura di Carsen, che, spogliata l’opera da qualsiasi fasto scenografico legato tradizionalmente all’immagine di un Don Carlo controriformista e barocco, ha puntato ad un allestimento minimalista (di Radu Boruzescu), incentrato su uno spazio vuoto e cupo in grado di trasformarsi velocemente dal cortile di un carcere a un interno claustrofobico, e su costumi (di Petra Reinhardt) dalle linee asciutte e moderne, rigorosamente in nero, giocando decisamente sulle suggestioni delle luci, create personalmente insieme a Peter Van Praet.
Lavorando con grande incisività sulla recitazione, Carsen è riuscito a definire come mai la psicologia dei diversi personaggi, trovando nuove chiavi di lettura, per lo più felicissime come talvolta meno. L’idea ad esempio di focalizzare l’introduzione alla grande scena dell’Autodafé sulla vestizione di Filippo II, che sotto il mantello regale indossava una tonaca sacerdotale, sottintendeva la volontà dell’inesorabile sovrano di assommare a sé sia il potere politico che religioso, idea sicuramente intrigante e plausibile. Che da questa scelta assolutistica si arrivasse poi al giallo di un colpo di Stato, con il Grande Inquisitore complice del Marchese di Posa (la cui uccisione si sarebbe rivelata simulata per permettergli di salire al trono in seguito alla morte di Carlo e dello stesso Filippo, trucidati a tradimento), poteva invece risultare una trovata un po’ troppo a effetto, per quanto risolutiva di un finale che anche nell’ originale libretto risolto non è, con quell’ apparizione davvero enigmatica di Carlo V che rapisce l’infelice nipote per condurlo nell’ aldilà.

A parte questa licenza, comunque, il lavoro di Carsen è risultato pregevolissimo per la tensione drammaturgica, il rispetto fondamentale della musica e il lavoro finissimo operato sui cantanti. Tutti si sono rivelati pienamente nella parte, anche al di là di alcuni limiti vocali. Piero Pretti è stato ad esempio un Don Carlo forse non seducente e malinconico come altri celebri interpreti, ma ha assicurato un canto tenorile limpido e svettante, quanto nitido ed espressivo nel fraseggio, perfettamente abbinato alla nobile Elisabetta di Maria Agresta, uno dei migliori soprani lirici in circolazione a livello internazionale, alata nei pianissimi, ampissima nel legato dei cantabili, intensa e femminile nella bellissima presenza scenica.
Grande impatto ha riscosso il Rodrigo di Julian Kim per la voce sontuosa di baritono dallo smalto, estensione e volume sorprendenti, a servizio di una linea di canto sorvegliata, mentre Veronica Simeoni ha assicurato alla principessa Eboli le insidiose agilità e gli slanci acuti, meno forse la veemenza di certe frasi centrali, dove la sua voce ha accusato alcune fragilità sonore seppur all’ nterno di un’interpretazione convincente e di ottimo rilievo scenico. Alex Esposito – al debutto in un ruolo come Filippo II apparentemente al di sopra della sua statura vocale e scenica – ha dimostrato notevole intelligenza nel puntare maggiormente sull’ incisività della parola che sulla potenza del suono e, grazie a Carsen, su una recitazione più misurata del solito, grazie alla quale ha restituito il personaggio con una complessità sfaccettata e umana di inedita suggestione. Marco Spotti ha garantito all’ Inquisitore il colore profondo e l’autorità inesorabile, insieme a tutti gli ottimi interpreti dei ruoli minori, Leonard Bernad (il Frate), Barbara Massaro (Tebaldo), Luca Casalin (il Conte di Lerma), Matteo Roma (l’araldo reale), Gilda Fiume (la voce dal cielo) e, come deputati fiamminghi, Szymon Chojnacki, William Corrò, Matteo Ferrara, Armando Gabba, Claudio Levantino, Andrea Patucelli. Orchestra del Teatro La Fenice in gran forma, come il coro preparato da Claudio Marino Moretti. Successo trionfale per tutti.

Visto al Teatro la Fenice di Venezia, 7 dicembre 2019

foto Michele Crosera