Clima di guerra alla Scala con i Vespri siciliani

L’opera scritta da Verdi per Parigi è tornata alla Scala in una versione lontana dall’originale grand-opéra e con un’ambientazione da trincea per la regia di Hugo De Ana, che non ha convinto. Buona invece l’esecuzione musicale, diretta con autorevolezza da Fabio Luisi e sostenuta da un cast vocale dai molti pregi. Davide Annachini

Mettere in scena I vespri siciliani di Verdi è per qualsiasi teatro una scommessa delle più ambiziose, vuoi per la monumentalità e le pretese sceniche dell’allestimento vuoi per le difficoltà nel reperire un quartetto vocale e un direttore di livello. Il Teatro alla Scala, che nel suo glorioso passato vanta edizioni dell’opera verdiana talvolta leggendarie, nel riproporla ha contato su alcuni punti di forza, come ad esempio un maestro della messinscena lirica quale Hugo De Ana, che nel trasportare la vicenda in epoca moderna e sul campo di un’ipotetica guerra ha probabilmente influenzato anche alcune scelte musicali, in comune accordo con il direttore Fabio Luisi. Non si spiega altrimenti la scelta di abolire una parentesi lunga e di musica bellissima come quella dei ballabili (per di più in uno dei pochi teatri in grado di vantare ancora un corpo di ballo), spogliando di conseguenza il lavoro della tipica allure di grand-opéra, alla quale lo stesso Verdi si era adeguato nel presentare in prima assoluta Les vêpres siciliennes all’Opéra di Parigi nel 1855.

La versione italiana – per motivi di censura andata all’epoca in scena sotto il titolo di Giovanna de Guzman – può forse prestarsi maggiormente a un’edizione ridotta, che comunque spazia sempre su cinque atti e che in questo caso vedeva ulteriori tagli, non tutti particolarmente giustificati, come nel caso del coro d’apertura dell’ultimo atto. Detto questo, la direzione di Luisi si è imposta ugualmente come protagonista dell’edizione nel reggere il disegno dell’intera partitura, così ampia e variegata, con incisività, slancio e tensione drammatica, ottenendo una risposta vibrante dall’orchestra e dal coro scaligeri (quest’ultimo preparato da Alberto Malazzi) e mostrando attenzione alle ragioni del canto, che soprattutto nel caso del soprano e del tenore presentano parti da far tremare i polsi.

In effetti il ruolo della duchessa Elena, scritto per un soprano di vocalità abnorme ed estesissima come Sophie Cruvelli, spazia su momenti di grande impeto come su altri di estatico abbandono (vedi la celebre aria “Arrigo! Ah, parli a un core”) per poi lanciarsi nel virtuosismo del brillante quanto insidiosissimo Bolero. Di conseguenza si configura come ideale banco di prova per un autentico “soprano drammatico d’agilità” e non a caso quelle rare cantanti che rispondono a questa cilindrata hanno modo di figurare al massimo, come fu per la Callas nel 1951 proprio alla Scala, dove fece il suo trionfale e definitivo lancio internazionale in questa parte. A reggere ora l’impresa era Marina Rebeka, artista di primissima qualità ma più propriamente un “lirico d’agilità”, quindi di vocalità più leggera e chiara, che se trovava i suoi meriti nella sicurezza degli slanci acuti e nella dolcezza dei momenti più intimi faticava in altri a emergere nel registro centro-grave e nei confronti di un’orchestra di grande intensità. Se alcuni dissensi alla prima possono essere apparsi immeritati per una cantante di classe come lei, c’è da rilevare che anche all’ultima recita (in cui il soprano lettone rientrava d’emergenza per sostituire una collega indisposta) qualcosa lasciava ancora perplessi all’interno di una prestazione di livello, come si è potuto riscontrare nell’accoglienza gelida e spaesata del pubblico alla fine dell’aria del quarto atto, per altro cantata benissimo.

Anche la parte del tenore non scherza, nel pretendere una vocalità tendenzialmente spinta e dagli scarti acuti scomodissimi, che all’ultimo atto arrivano a toccare addirittura un re sovracuto, nota incongrua quanto motivata dalle esigenze dell’opera francese, che amava queste puntature da eseguire in falsettone alle quali lo stesso Verdi si era obtorto collo prestato. A differenza di Elena c’è da dire però che quella di Arrigo è una parte ugualmente ardua ma di scarsa gratificazione per chi la canta, visto che non concede pagine di memorabile suggestione, né valorizza lo sforzo dell’esecutore. Nel perdurare dell’indisposizione che l’ha colpito dopo le prime recite, il bravo Piero Pretti è stato a sua volta sostituito in emergenza da un giovane di belle speranze come Matteo Lippi, voce luminosa, generosa e schiettamente tenorile, in grado di sostenere una parte così insidiosa in un teatro come la Scala con grande sicurezza e slancio, mostrando anche carattere nel gestire la scena. Emergente è anche il baritono russo Roman Burdenko, che nella parte del tiranno Monforte ha messo in luce non solo una vocalità di bell’impasto baritonale e particolarmente facile sull’acuto ma soprattutto una sensibilità apprezzabile di interprete, tale da restituire ottimamente la figura contradditoria del potente intenerito alla scoperta di trovare un figlio nel suo più acerrimo nemico, ingrediente – quello della paternità – quanto mai caro a Verdi. Bravissimo anche il basso Simon Lim, che ha saputo trovare nell’intransigente fanatismo patriottico di Procida una chiave di lettura meno monolitica e più sofferta, soprattutto con un’esecuzione commossa della famosa “O tu, Palermo”, giocata su molte sfumature e su un canto più raccolto per quanto pastoso. Buoni quasi tutti i personaggi di fianco, in particolare Valentina Pluzhnikova (Ninetta), Giorgio Misseri (Danieli), Andrea Pellegrini (Bethune), Adriano Gramigni (Vaudemont).

Lo spettacolo totalmente a firma di Hugo De Ana (luci di Vinicio Cheli, coreografie di Leda Lojodice), fortemente contestato alla prima, aveva forse il limite comune a molte trasposizioni in chiave moderna di un’opera, che, sposata un’idea magari interessante, hanno da fare poi i conti con una coerenza che va cozzare con quella non solo del libretto ma anche teatrale. E il regista argentino – insuperabile nel ricreare mondi arcani e atmosfere di suggestiva magnificenza visiva – ha preferito trasportare la Sicilia dei vespri rivoluzionari in una guerra anni ’40, che, se storicamente non si giustificava (come far passare lo sbarco degli Americani come l’invasione di tiranni torturatori degli italiani?), male si prestava a narrare un’opera così lunga, nello stagnare in perenni visioni di carri armati e divise militari di plumbea pesantezza, monolitica oscurità e deprimente povertà nei costumi, così dimessi e sciatti da sembrare acquistati in un magazzino strapopolare.

Uno spettacolo mancato, anche per l’inaspettata debolezza registica nel far muovere i protagonisti, che non ha impedito però un successo caloroso alla componente musicale, intensamente applaudita.

 

Visto il 21 febbraio al Teatro alla Scala di Milano