La stagione 2018/19 del Teatro milanese si è aperta con la convincente proposta di un’opera giovanile di un Verdi ma non certo ‘di galera‘ – Davide Annachini
L’Attila di Verdi ha costituito per il Teatro alla Scala di Milano un’inaugurazione vincente, che ha messo un po’ tutti d’accordo quanto a felice combinazione tra interesse musicale, qualità esecutiva e successo di pubblico. In effetti la scelta di un titolo degli “anni di galera”, ormai entrato stabilmente in repertorio e collegato alla precedente proposta inaugurale di Giovanna d’Arco nell’arco di una programmata “trilogia” dedicata al giovane Verdi, ha trovato in questo caso alcune interessanti varianti di valore musicologico, come l’aria alternativa di Foresto scritta per il celebre tenore Napoleone Moriani in occasione della prima rappresentazione scaligera dell’opera nel 1846 e in particolare l’inserimento di cinque battute orchestrali composte addirittura da Rossini (senza permesso di Verdi) a introduzione del famoso terzetto “Te sol, te sol quest’anima” per un concerto parigino del 1865.
Curiosità che sarebbero rimaste tali se non attentamente inserite in una precisa linea interpretativa, proposta da Riccardo Chailly con grande chiarezza di lettura, analisi stilistica e tenuta drammaturgica. La sua direzione, magnificamente sostenuta dall’orchestra e dal coro scaligeri (quest’ultimo preparato da Bruno Casoni), ha rivelato un’adesione alla scrittura verdiana estranea a certe accensioni effettistiche e ad una visione insistentemente eroica che per tradizione hanno spesso classificato questa come un’opera da battaglia, tagliata un po’ con l’accetta e tutta a senso unico nelle sonorità e nell’espressione.
Al contrario la misura impressa da Chailly alla conduzione ha guardato a mettere in luce l’aspetto intimo dei personaggi – sempre pronti a battagliare all’apparenza ma non per questo privi di risvolti psicologici suggestivi –, la sofferenza di un popolo oppresso, i sentimenti contraddittori che agitano anche i cattivi della situazione, a partire dallo stesso Attila, che in definitiva risulta essere l’autentica vittima della vicenda. Di conseguenza la scelta di sonorità intense e avvolgenti, la trasparenza di certi colori, il vibrante impatto di alcuni stacchi hanno disegnato un Verdi tutt’altro che “di galera” (inteso nell’accezione brutalmente frettolosa e ruvida che per troppo tempo si è attribuita alla sua produzione giovanile) quanto invece nobile, rivelatore e già pienamente personale.
La compagnia di canto ha dato man forte a questa linea interpretativa con totale adesione in tutte le sue componenti, che nel quartetto protagonistico vedevano per altro due cantanti al loro debutto scaligero. Il baritono rumeno George Petean ha svelato ad esempio una vocalità importante per ampiezza, timbro, morbidezza, estensione (basti pensare al si bemolle acuto con cui ha coronato la sua cabaletta, nota autenticamente tenorile), qualità che gli hanno dato modo di delineare del ruolo di Ezio un ritratto meno stentoreo del solito e in grado di contrapporre al lato eroico del generale romano quello più interiore del patriota. Lo stesso dicasi del soprano spagnolo Saioa Hernàndez – autentica rivelazione di questa edizione – che nella parte arditissima di Odabella ha sfoggiato uno slancio vibrante nelle accensioni dell’aria di entrata e una tenuta impressionante nei frequenti salti al registro acuto senza mancare poi di dolcezza nella seconda aria, più intima ed estatica, confermando in un debutto così rischioso l’autentica stoffa della primadonna, salita agli onori del massimo teatro lirico dopo i fortunati esordi in quelli minori dell’Emilia, dove si era segnalata ultimamente come Wally e Gioconda.
Per Fabio Sartori si trattava invece di giocare in casa e ancora una volta di cimentarsi in Verdi con questo ruolo di Foresto, dove la qualità della voce, l’espansione del canto e la duttilità nel modulare coloristicamente la frase hanno ampiamente riscattato una presenza fisica alquanto monolitica, testimoniando quello che al momento resta uno dei pochi autentici tenori verdiani in circolazione. Altra conferma, non solo come interprete ideale di Verdi ma anche come protagonista autorevolissimo, è stato indubbiamente Ildar Abdrazakov, un Attila che ha trionfato per la bellezza di una vocalità morbida e pastosa, tutta uguale nel colore anche se più espansa nell’acuto che nel grave, e per la particolarità suggestiva dell’interpretazione. Rispetto all’apocalittico re degli Unni di un Christoff o a quello ieratico e belcantistico di un Ramey, quello del basso russo ha scoperto sotto la patina del cattivo una natura profondamente umana, che nella sincerità e nella passione dell’eroe (per quanto negativo) ha messo ancor più in luce per contrasto la doppiezza e il raggiro ai suoi danni di quelli che dovrebbero essere in realtà i buoni della storia.
Successo unanime per la componente musicale (in cui vanno ricordate anche le buone prove di Francesco Pittari come Uldino e di Gianluca Buratto come Leone) e fortunato riscontro per quella visiva, affidata alla regia di Davide Livermore, che ha trasportato la storia in una Roma neorealista, dalle atmosfere cupissime e tempestose (luci di Antonio Castro), dalle rovine belliche che si imparentavano a quelle della città antica (scene di Giò Forma), dalle proiezioni evocative (di D-Wok), in particolare per il flash-black di un’Odabella bambina che assiste all’uccisione del padre per mano dello stesso Attila, di cui a sua volta lei diventerà carnefice per riscattare il martirio paterno. Forse più scontata è sembrata la soluzione degli ultimi due atti, in cui dalla Roma, città aperta di Rossellini – evocata dagli eccidi spietati di uomini, donne, sacerdoti e dai tipici costumi anni ’40 (di Gianluca Falaschi) – si è passati (attraverso una citazione un po’ fine a se stessa del Raffaello delle stanze vaticane con un tableau-vivant dell’incontro tra Papa Leone e Attila) alle depravazioni naziste di Portiere di notte della Cavani o della Caduta degli Dei di Visconti per descrivere gli ambigui festini degli invasori, che seppur nella loro legittima coerenza apparivano inevitabilmente come un déjà vu.
Questo non ha tolto comunque nulla all’esito felicissimo di una produzione del tutto riuscita e trionfalmente accolta dal pubblico anche nelle repliche.
Visto al Teatro della Scala di Milano il 5 gennaio 2019. Foto di BRescia-Amisano, courtesy Teatro alla Scala