Traviata 2013

Traviata alla Scala: “sempre libera” di piacere. O no

Aleggiava lo spettro della mitica edizione del 1955 Callas-Visconti-Giulini su questa coraggiosa “Traviata”. Resta comunque l’impressione di uno spettacolo difficile da amare e talvolta da accettareDavide Annachini

La Traviata è storicamente il titolo più a rischio che il Teatro alla Scala possa mettere in cartellone: lo spettro della mitica edizione del 1955 Callas-Visconti-Giulini aleggia tuttora, nonostante la pluriosannata edizione firmata da Riccardo Muti abbia a suo tempo interrotto quel timoroso ostracismo durato decenni. L’averla quindi proposta come inaugurazione della stagione 2013/14, a chiusura dell’anno verdiano e della gestione Lissner, è stata senz’altro una scelta coraggiosa, che prestava il fianco a possibili contrasti anche per la scelta di una messinscena anticonvenzionale. Come tutti hanno potuto constatare dalla diretta televisiva del 7 dicembre, la prima non è passata indenne, con pesanti contestazioni alla regia e con consensi/dissensi per la direzione d’orchestra e il tenore, mentre a convincere tutti è stata la protagonista, Diana Damrau, Violetta del momento a livello internazionale, che in quest’occasione ha dimostrato professionalità e sangue freddo da vendere. Nel corso delle repliche, com’è prevedibile, gli umori si sono calmati e alla recita in questione, al di là di una certa freddezza del pubblico nel corso della rappresentazione, si è potuto parlare di un esito ampiamente felice.

Resta comunque l’impressione di uno spettacolo difficile da amare e talvolta da accettare, soprattutto negli atti delle due feste, in cui la capacità del regista Dmitrij Černjakov di reggere il discorso scenico suggerito dal ritmo inarrestabile della musica risulta faticoso, inconcludente e forzato, nel descrivere una società strampalata oltre l’immaginabile (complici i terribili costumi di Yelena Zaytseva) e difficilmente credibile nella capacità di divertirsi non si sa di cosa, a partire dalla protagonista, che a forza di ridere e gesticolare sembra più un personaggio da commedia musicale che da opera. Il secondo atto, ambientato dallo stessoČernjakov nella grande cucina di una villa di campagna in stile provenzale, deborda invece di frenesia descrittiva: Violetta, indossati i panni di casalinga sciatta e ciabattona, non ha un attimo di pace tra bricchi, pentole e tazzine, mentre Alfredo affoga l’ozio spensierato spianando la sfoglia con il mattarello quanto la rabbia accecante a colpi di coltello, nell’affettare freneticamente le verdure per il minestrone. Il tutto privando l’intimismo degli assoli o dei duetti con l’onnipresenza di un testimone muto, a seconda del caso la cameriera Annina (qui confidente di fiducia di Violetta, trasformata in una grottesca ex-maȋtresse in perfetto stile Ozpetek) o il domestico Giuseppe.

Altrove, però, la regia centra il segno di un realismo non solo fine a se stesso ma maggiormente intonato all’opera, come nell’ultimo atto, in cui la solitudine disperata di Violetta trova la sua adeguata espressione nell’abbrutimento di un’alcolista intossicata dai barbiturici, che, nel riflettere sulla fine della sua esistenza con uno struggente “Addio del passato”, si autoseppellisce sotto un enorme piumone. E non dispiace nemmeno la proposta di una protagonista meno vittima e più ribelle nei confronti di Alfredo, soprattutto quando lo rigetta battendogli i pugni addosso rispetto a quando lo consola a forza di patetici colpetti sulla spalla.

Per quanto riguarda la componente musicale, c’è da riconoscere un risultato globale di livello, a cominciare dalla Damrau, che, per quanto impedita da costumi e parrucche indifendibili (come presentare una cantante un po’ in carne a braccia scoperte e con mise che spaziano da Betty Boop a Minnie Minoprio?…), ha sposato in toto il suo personaggio, convincendo e vincendo oltre che per la straordinaria padronanza vocale soprattutto per la travolgente passionalità interpretativa. La capacità di uscire dai contorni di eccellente virtuosa per buttarsi nel canto appassionato di autentico soprano lirico, dal timbro denso e luminoso quanto vibrante e generoso nell’emissione, ha dimostrato la volontà da parte della Damrau di essere interprete avanti tutto. Proprio per questo ha convinto la sua Violetta, nel rispondere in maniera del tutto personale a un ruolo quasi irrisolvibile, vuoi perché suggestionato da modelli irraggiungibili vuoi perché difficile da bilanciare tra enormi pretese vocali ed espressive. Meno suggestivo l’Alfredo di Piotr Beczala, sia a causa di un canto un po’ legnoso e privo di sfumature sia per la lettura data dalla regia, che ne ha fatto un personaggio ancor più impacciato e ottuso del solito, ma non al punto da meritare gli aspri dissensi della prima, data la professionalità della sua prestazione. Željko Lučić, come i suoi due colleghi cantante di livello internazionale soprattutto al Met di New York, è stato un Gérmont padre di adeguata autorità vocale e scenica, più sensibile ed espressivo rispetto ad altre sue performance, tendenzialmente stentoree e incolori, anche se non irreprensibile nella ruvidezza di alcune emissioni acute. Discontinue le parti di fianco, tra cui figurava una rispettabile protagonista di anni fa, Mara Zampieri, qui Annina di indubbio spicco interpretativo.

Della direzione di Daniele Gatti si è apprezzata la larga cantabilità dei tempi adottati, in grado di far respirare le voci e il lirismo di tante pagine, per lo più giocate da Verdi sul ritmo di un continuo, estenuato valzer. Questo può aver fatto storcere il naso a chi era magari abituato a letture più stringate e nervose ma è innegabile si sia trattato di un’interpretazione coraggiosamente personale, a suo modo alternativa, attenta nel nobilitare alcune pagine meno amate (come le troppo disprezzate cabalette maschili) e nel ricercare una nuova suggestione per quelle più abusate. Da parte loro, l’Orchestra e il Coro della Scala – preparato da Bruno Casoni – hanno mantenuto fede alla loro fama.

Il successo è stato molto caloroso per tutti, con punte di entusiasmo per la Damrau, l’unica applaudita a scena aperta – come già alla prima – nel corso dell’ultimo atto.

Visto al Teatro alla Scala di Milano, il 22 dicembre 2013. Prossime repliche il 28, 31 dicembre e 3 gennaio 2014. Nella foto in alto, Diana Damrau, Violetta, con Piotr Beczala, Alfredo. © Marco Brescia & Rudy Amisano

La traviata - 7 dicembre 2013 (Teatro alla Scala)

La traviata
opera in tre atti
libretto di Francesco Maria Piave
musica di Giuseppe Verdi
Violetta Valéry Diana Damrau
Flora Bervoix Giuseppina Piunti
Annina Mara Zampieri
Alfredo Germont Piotr Beczala
Giorgio Germont Željko Lučić
Gastone Antonio Corianò
Barone Douphol Roberto Accurso
Marchese d’Obigny Andrea Porta
Dottor Grenvil Andrea Mastroni
Giuseppe, servo di Violetta Nicola Pamio
Domestico di Flora Ernesto Petti
Commissionario Ernesto Panariello
direttore e concertatore Daniele Gatti
regia e scene Dmitrij Černjakov
costumi Yelena Zaytseva
luci Gleb Filshtinsky
maestro del coro Bruno Casoni
Coro e Orchestra del Teatro alla Scala

Photogallery su Teatroallascala.org 

3 commenti su “Traviata alla Scala: “sempre libera” di piacere. O no

  1. Se lo spettro di Visconti avesse aleggiato un po’ meno, ci si sarebbe accorti che qui aleggiava Fassbinder. Vedi il costume di Violetta nel secondo quadro del secondo atto identico a quello di Margit Casternsen in Petra Von Kant, vedi i volutamente orribili costumi maschili. Non credo che la Zaytseva avrebbe avuto problemi a disegnare costumi ” di buon gusto” , ma qui il riferimento era Reiner a cui il “buon gusto” ha sempre fatto – secondo me giustamente – orrore.

    • Caro Bruni, grazie innanzitutto per l’amicizia e la rinnovata frequentazione. La sua acuta osservazione su Fassbinder ha stimolato l’estensore della recensione a produrre una replica che riporto fedelmente, ringraziandola nuovamente per il contributo. Un caro saluto a lei e a tutta la compagnia dell’Elfo. (e.f.)

      “Sempre liberi” di pensarla come ognuno crede: a noi fa solo piacere riscontrare opinioni diverse, civili e qualificate, come questa.

      Che su questo spettacolo aleggiasse anche Fassbinder penso che un po’ tutti l’abbiano capito quando il domestico di Flora ha annunciato “la cena è pronta” mostrando i pettorali e l’inequivocabile berretto da marinaio alla Querelle. Ma è nelle citazioni che sta la qualità di una regia? E una recensione dovrebbe tenerne conto scrupolosamente, anche quando queste restano un’esercitazione fine a se stessa, scollata da una lettura coerente e illuminante? Anch’io voglio sperare che la Zaytseva sia in grado di ideare costumi di qualità – altrimenti non si spiegherebbe la sua presenza ad un’occasione così prestigiosa – ma stupisce come “i volutamente orribili costumi maschili” non sembrassero frutto di una rielaborazione teatrale (e la Scala possiede – o possedeva – uno straordinario laboratorio di rielaborazione dei costumi annesso alla sartoria, dove i costumi, diversamente da quelli per il cinema o la televisione, vengono trattati appositamente per “arrivare” ad un pubblico che non li può apprezzare da vicino). Sembravano piuttosto abiti comuni prelevati pari pari da un outlet di provincia (corre voce sia andata proprio così, cosa peraltro comune ad altri teatri, che per risparmiare attingono a man bassa dai grandi magazzini…) e la loro tristezza stava proprio nella sciatta quotidianità che li faceva sembrare portati da casa dai rispettivi interpreti. Non è tanto una questione di “buon gusto”: anche una crinolina d’epoca può essere di pessimo gusto se realizzata male, come al contrario possono risultare perfettamente centrati dei costumi ispirati alla nostra epoca se attentamente pensati, “reinventati” e confezionati, come le attualissime Traviate di un Carsen, di un Vick, di un Decker hanno dimostrato.

      Il costume peraltro è sempre stato decisivo in un’opera come Traviata: il realismo a cui puntava Verdi – molto vicino a quello di un Courbet, che negli stessi anni dipingeva le sue scandalose Demoiselles – era quello della sua epoca, a cominciare proprio dagli abiti. Soprattutto per questo l’opera, dopo il fiasco della prima veneziana, venne per molto tempo rappresentata in abiti settecenteschi, per allontanare un soggetto così scabroso dalla contemporaneità. Visconti, al contrario, nella sua Traviata scaligera, posticipò l’epoca di trent’anni, perché i busti a vitino di vespa e i “Cul de Paris” restituivano una silhouette più sinuosa e sensuale alle figure femminili, evocando una società ancora più disinibita e decadente rispetto a quella di metà Ottocento. Poté farlo anche perché disponeva di una Callas all’epoca dimagritissima. Di sicuro non le avrebbe imposto gli stessi costumi due anni prima, quando il soprano pesava trenta chili di più, perché aveva “il buon gusto” di non metterla in ridicolo.

      Un figurino può essere bellissimo sulla carta ma deve sempre fare i conti con le misure di chi dovrà indossare quel costume. Proprio per questo alla Scala la Damrau ha doppiamente vinto, non solo per la sua bravura di cantante ma soprattutto per la convinzione con cui è entrata nel personaggio, anche a dispetto di una regia incurante di valorizzarla sotto il profilo scenico. (davide annachini)

  2. Mi piace segnalare una testimonianza di Piero Tosi, su ciò che significa fare costumi di scena. La trovo illuminante e interessante. ” dall’intervista di Fulvio Paloscia a Piero Tosi. illuminante ” In Bellissima, Visconti volle che i costumi sembrassero abiti veri, tolti alle persone per la strada senza neanche lavarli, messi addosso pieni del calore della vita. Fu una grande lezione perché capii cosa significhi realizzare un abito come una buccia del personaggio, come la pelle: quando un attore indossa un costume vissuto, la cui stoffa è addolcita dall’uso, è il segno che vi è passata una vita. Ed è la meraviglia del cinema che, a differenza del teatro, coglie queste cose con occhio feroce. I due Visconti hanno una cosa in comune: un grande lavoro sui personaggi».