I due Foscari ritornano dall’esilio a Venezia ed è subito festa

Una delle opere più rappresentative del primo Verdi ha ritrovato la sua ambientazione veneziana nella splendida cornice del Teatro la Fenice, da cui mancava da quasi mezzo secolo, accolta con calore grazie ad un cast con alcune punte di rilievo. Davide Annachini

Nonostante il soggetto prettamente veneziano, ispirato all’omonima tragedia di Lord Byron, I due Foscari di Giuseppe Verdi tornavano alla Fenice solo per la terza volta in epoca moderna, a ben quarantasei anni dall’ultima edizione. Assenza singolare e che il teatro veneziano ha giustamente colmato a distanza di pochi mesi dall’andata in scena dell’Ernani, come a sottolineare la stretta successione cronologica delle due opere e il fatto che, dopo l’esordio felicissimo della prima proprio alla Fenice, Verdi avesse pensato allo stesso teatro anche per la seconda, trovando però le resistenze veneziane nei confronti di un soggetto che rinverdiva un passato di storia locale ancora spinoso e dovendo ripiegare di conseguenza sulla piazza romana, dove l’opera sarebbe andata in scena in quello stesso 1844 al Teatro Argentina.

Opera tipica dei cosiddetti “anni di galera”, caratterizzata da un taglio teatrale stringato e incalzante come da una ferrea distribuzione musicale di recitativi, arie, cabalette, duetti, terzetti e concertati, cioè da tutti quei classici pezzi chiusi che continueranno a siglare il melodramma verdiano del periodo risorgimentale, I due Foscari evidenziano al di là di una drammaturgia talvolta sbrigativa – soprattutto nella morte per crepacuore dell’anziano doge destituito e del figlio ingiustamente esiliato – una scolpitezza dei tre personaggi principali, tanto nel versante drammatico quanto in quello patetico, già anticipatrice dei grandi protagonisti futuri e tale da imporli all’interno di una cornice corale, come sempre infiammata e travolgente, quali emblemi di forza eroica e morale. Ciò detto, Verdi riserva al terzetto vocale una scrittura quanto mai esigente per slancio vocale e tensione, da alternare a un canto morbido e legato, oltre che contrassegnato dai melismi di un virtuosismo sia elegante sia “di forza” ormai prossimo al tramonto, per quanto ancora fedele alla tradizione belcantistica.

Sotto questo aspetto chi ne fa le spese più degli altri nelle opere del primo Verdi è sempre il soprano, sottoposto a scarti vocali spesso temerari per il continuo proiettarsi dal grave all’acuto come a un canto d’agilità sferzante e drammaticissimo, teso ad evocare una primadonna vagamente virago ma pur sempre sentimentale. A Venezia il personaggio di Lucrezia Contarini – autentico motore dell’opera per risolutezza e coraggio rispetto ai due Foscari, protagonisti loro malgrado perdenti in partenza – ha trovato un’interprete ideale in Anastasia Bartoli, che ha bissato il successo già ottenuto alla Fenice in Ernani. Voce penetrantissima e sfogata nell’acuto – con cui ha dominato tutti i concertati – quanto incisiva nel grave (dove però certi suoni andrebbero calibrati meglio), dalle agilità a piena voce mordenti e precisissime come dalle sfumature suggestive nei piani, quella della Bartoli è uno strumento prezioso non solo per questo repertorio, se le sue scelte sapranno essere prudenti e lungimiranti, considerando per altro la grinta espressiva e scenica dell’interprete. Il successo più convinto da parte del pubblico è stato il suo e a ragione. Il ruolo del Doge Foscari – parte da autentico baritono nobile, che a Venezia nel 1977 aveva avuto come interprete insuperato Renato Bruson – era affidata a Luca Salsi, quanto di meglio in circolazione in Italia per il canto pieno, ampio, solidissimo, che, a confronto con un ruolo senile e intimamente piagato, ha risposto benissimo vocalmente, in misura apprezzabile nelle intenzioni patetiche, con alcune mezzevoci efficaci anche se non spontanee, ma solo in parte sotto il profilo interpretativo, dove la sua solarità mal si sposava all’immagine struggente di un uomo diviso tra i doveri politici e la pietà paterna, riscattandosi però alla grande nella famosa invettiva finale “Questa è dunque l’iniqua mercede”, in cui lo slancio potente e rabbioso hanno restituito ottimamente l’idea dell’ultimo ruggito del leone prossimo a capitolare. Nel ruolo di Jacopo Foscari figurava un’altra celebrità come Francesco Meli, qui impegnato in un ennesimo cimento verdiano, per la verità meno improbo di altri abitualmente affrontati dal cantante italiano. Ugualmente la sua voce, di natura bella e pastosa da autentico tenore lirico puro, ora ha messo in luce ancor più le conseguenze di un repertorio affrontato al di sopra delle proprie possibilità, con un’emissione faticosa e talvolta spasmodica, acuti forzati e oscillanti, un canto a piena voce costretto a ripiegare nel falsetto nei tentativi di mezzavoce, tutti elementi non esattamente attribuibili solo a una serata no. Del cast restava solo da segnalare il Loredano nobilmente sinistro e timbricamente suggestivo del bravissimo Riccardo Fassi, mentre al podio Sebastiano Rolli ha diretto gli ottimi organici della Fenice (maestro del coro Alfonso Caiani) con piglio nervoso e scattante, per non dire senza respiro in certe cabalette, imprimendo una cifra bruciante e drammatica a questo Verdi, non privo comunque di abbandoni lirici negli squarci più intimi e dolenti.

Lo spettacolo, andato in scena l’anno scorso al Maggio Musicale Fiorentino, si integrava meglio alla splendida cornice del teatro veneziano rispetto all’asettico auditorium di Firenze, pur non regalando nulla di più a una regia minimalista e scolasticamente prevedibile come quella di Grischa Asagaroff, incentrata su un enorme periatto girevole, dalle facce con intarsi e tombe di gusto quattrocentesco, firmato da Luigi Perego, autore anche dei costumi in stile, insieme alle luci di Valerio Tiberi e alle coreografie di Cristiano Colangelo.

Ottimo il successo di pubblico per questa fortunata ripresa verdiana, che chiudeva la stagione del Gran Teatro la Fenice, pronto ad inaugurare quella 2023/24 già a novembre.

 

Visto al Teatro la Fenice di Venezia l’8 ottobre