Due titoli pressoché sconosciuti della grande produzione donizettiana regalano scoperte e sorprese ai cultori del belcanto.-Davide Annachini
Il Festival Donizetti Opera, migrato al Teatro Sociale di Bergamo Alta in attesa del completamento dei restauri nel grande teatro di città bassa, ha schierato per il 2018 una serie di appuntamenti accattivanti per gli amanti del grande musicista bergamasco, che conta fedelissimi in tutto il mondo, oltre che una nobilissima Society londinese votata da decenni al recupero del suo sconfinato e quanto più raro repertorio.
Nel corso degli ultimi sessant’anni di Donizetti non si è mancato di riscoprire praticamente nulla, pur attingendo a un catalogo che conta la bellezza di una settantina di titoli, più o meno pregevoli, spesso entusiasmanti, talvolta autentici capolavori. Forse mancava all’appello – quantomeno in Italia e in epoca recente – il suo debutto teatrale come operista, Enrico di Borgogna, andato in scena giusto due secoli fa a Venezia. L’esordio di un ventunenne, per quanto promettente e formato alla scuola di un illustre maestro come Simone Mayr, non poteva svelare sorprese miracolose e difatti di rivelatore in quest’opera c’è poco o nulla, fatta eccezione per una delle sue più incantevoli melodie, qui un po’ in sordina ma che una dozzina dì anni dopo brillerà come “Al dolce guidami” in Anna Bolena. Il modello è prevedibilmente Rossini, all’epoca il musicista senza rivali, anche se l’impronta personale di un compositore votato sia al dramma che al comico affiora in una partitura di sicura gradevolezza e discreta tenuta drammaturgica. Ovviamente certe debolezze non possono non venire talora allo scoperto in un’opera semiseria (genere che non sempre calzò benissimo a Donizetti nei suoi ripetuti tentativi), per di più di considerevole ampiezza e dal libretto piuttosto convenzionale, che già all’epoca dovette convincere poco, tanto da cadere nell’oblio solo a un mese dal debutto, dopo una ripresa bergamasca proprio al Teatro Sociale.
In questa legittima riesumazione il Festival ha trovato nella chiave di lettura della regista Silvia Paoli una possibilità di riscatto per l’Enrico di Borgogna, puntando al lato comico dell’opera più che a quello serio (in realtà prevalente) e cercando nella parodia di una compagnia di commedianti, che mette in scena un improbabile dramma tra i capricci e i risvolti privati da tipico “teatro alla moda”, la restituzione di un Donizetti godibile. Su un palcoscenico girevole (di Andrea Belli) e con i costumi naȉf di Valeria Donata Bettella – cornice coloratissima, funzionale e nel suo genere irresistibile – la regia si è mossa con perfetto ritmo e soluzioni felici, sempre in sintonia con la musica e con gli interpreti, abilissimi nel caratterizzare i rispettivi personaggi e nell’assolvere al tempo stesso validamente le parti vocali.
Anna Bonitatibus, nel ruolo en travesti di Enrico, è stata un protagonista di delicata cifra virtuosistica e di raffinata sensibilità espressiva, mentre Sonia Ganassi ha svelato come Elisa, oltre ai risaputi meriti di belcantista, qualità brillanti e comiche da esplorare con maggiore insistenza nel futuro. Del tenore Francesco Castoro (Pietro) ha colpito il timbro luminoso e la corretta linea di canto, di Levy Sekgapane (Guido) la spericolatezza del registro acutissimo, di Luca Tittoto (Gilberto) la comicità misurata e pungente, come quella pittoresca di Federica Vitale (Gertrude) e quella efficace di Lorenzo Barbieri (Brunone) e di Matteo Mezzaro (Nicola). Alessandro De Marchi ha diretto con brillantezza e soprattutto con convinzione la discreta Academia Montis Regalis e l’ottimo Coro Donizetti Opera preparato da Fabio Tartari, convincendo anche il pubblico nei confronti di questo Donizetti minore, accolto con calore e partecipazione.
Con Il castello di Kenilworth ci troviamo invece davanti a un Donizetti con undici anni di militanza nel melodramma e con quasi una trentina di titoli in più al suo attivo, prossimo a spiccare il volo verso la completa maturità che di lì a poco vedrà spuntare i grandi capolavori. Rispetto ad alcuni esperimenti felici il Castello può forse apparire un’opera che guarda al passato più che al futuro (lo stesso Donizetti lo riconobbe), tanto l’attenzione al virtuosismo richiama alla mente Rossini, ma non si può negare a questo lavoro una solida struttura drammaturgica e l’intrigante ispirazione al romanzo inglese alla Walter Scott che servirà da prototipo a tanti altri melodrammi a venire. Insieme alla prima raffigurazione di Elisabetta I (che si imporrà più avanti in due titoli di riferimento come Maria Stuarda e Roberto Devereux, entrambi scritti sempre per il San Carlo di Napoli), il Castello elenca pagine di bellissima fattura e di grande impegno virtuosistico. Tra tutte va ricordata la splendida aria di Amelia con accompagnamento di glassharmonica – strumento a bicchieri, che, riempiti diversamente d’acqua e sfregati con le dita, emanano sonorità arcane e celestiali -, in grado di evocare una sorta di straniamento del personaggio, che non a caso Donizetti riproporrà nella famosa pazzia di Lucia di Lammermoor.
Accolta da un insuccesso alla prima napoletana del 1829 e sparita velocemente dalla scene nonostante i rimaneggiamenti approntati dall’autore sotto il nuovo titolo di Elisabetta al Castello di Kenilworth, quest’opera merita invece di essere ascoltata e l’esecuzione bergamasca ne ha restituito i giusti meriti. Su tutti ha svettato l’Elisabetta di Jessica Pratt, soprano di granitico virtuosismo, di suggestiva sensibilità e dai brucianti slanci agli acuti più stellari, che in una voce di notevole penetrazione come la sua stupiscono per luminosità e arditezza da autentica fuoriclasse. Per intelligenza d’interprete e musicalità Carmela Remigio è stata come Amelia (sposa segreta del favorito Leicester) una coprotagonista convincente, al di là di uno smalto vocale un po’ appannato, mentre nei due ruoli tenorili Stefano Pop ha brillanto per sicurezza, timbratura e generosità come Warney e Francisco Brito per stile e sensibilità come Leicester, nonostante certe ruvidezze vocali e forzature del registro acuto. Dario Russo (Lambourne) e Federica Vitali (Fanny) completavano il cast, sotto la direzione stilisticamente consapevole e ben misurata di Riccardo Frizza, alla guida dell’Orchestra e del Coro Donizetti Opera.
Lo spettacolo di Maria Pilar Pérez Aspa (scene di Angelo Sala, costumi di Ursula Patzak, luci di Fiammetta Baldiserri) si è segnalato per il minimalismo essenziale ma efficace, che senza puntare a letture stravolgenti ha dato modo nella sua linearità scenica e nella precisa definizione dei personaggi di apprezzare le qualità sconosciute dell’opera, applauditissima dal pubblico insieme a tutti gli interpreti.
Visti a Donizetti Opera di Bergamo il 25 novembre e 2 dicembre 2018
foto crediti Gianfranco Rota, in apertura una scena da Il Castello di Kenibworth