Trovatore in bianco e nero al Festival Verdi di Parma

Al Festival Verdi di Parma è andato in scena un Trovatore altalenante tra luci e ombre, se non addirittura plumbeo nella discussa regia di Davide Livermore. Davide Annachini

Il Festival Verdi di Parma, all’interno di un cartellone ricco di appuntamenti in città e fuori, ha presentato una nuova produzione del Trovatore dai diversi motivi di interesse, a partire da un cast di solide presenze vocali per arrivare alla regia di uno dei più gettonati protagonisti della scena odierna come Davide Livermore. Alla resa dei conti si è trattata di un’edizione che, al di là di una certa discontinuità, ha avuto un innegabile impatto sul pubblico, sicuramente più prodigo nei consensi rispetto alla prima, piuttosto turbolenta nei confronti della regia.

In effetti la scelta di Livermore di trasportare la Spagna medievale di Gutiérrez-Cammarano nei bassifondi di una metropoli americana, dai grandi cavalcavia ferrigni e dai palazzi di vetro affacciati sull’acqua o sotto il tendone di un circo nel caso dell’accampamento degli zingari, poteva lasciare perplessi, pur proponendo una chiave di lettura a suo modo intrigante. Ma, come in quasi tutti i suoi spettacoli, Livermore ha pestato a fondo sul pedale di una teatralità a senso unico, estremizzata negli effetti e nelle soluzioni interpretative, facendo trascolorare l’atmosfera lunare e romantica del Trovatore in una cappa plumbea – dal bianco e nero prevalenti sugli isolati tocchi di rosso – di una crudezza scenica opprimente, con guerre tra bande – spesso armate solo di una ruota o di una sega – alla conquista non si capiva bene di che cosa. Ridotto scenograficamente all’osso, lo spettacolo viveva di proiezioni dall’instancabile horror vacui (scene Giò Forma, video D-Wok, costumi di Anna Verde, luci di Antonio Castro) nel segno di una continua esplicitazione visiva e simbolica, punteggiata dalle acrobatiche evoluzioni degli zingari-circensi, che all’ultimo minuto arrivavano a prendere in mano la situazione – sotto il comando di un’Azucena rediviva -, sgominando la gang del Conte di Luna e banalizzando uno dei più geniali e brucianti finali d’opera verdiani.

Sul fronte musicale le cose sono andate meglio, grazie ad una compagnia se non sempre emozionante quantomeno professionale e talvolta sorprendente. Valido nel complesso il Manrico di Riccardo Massi, tenore timbricamente un po’ spento ma in grado di svettare con sicurezza sui do della “pira” e di dare il meglio di sé a livello espressivo nei momenti più intimi, come l’aria e il duetto finale, con il risultato di conferire un’immagine giustamente più lirica che drammatica al protagonista dell’opera. La Leonora di Francesca Dotto ha rivelato una bella linea vocale, duttile nelle sfumature, facile nell’acuto e sostenuta da un fraseggio progressivamente sempre più intenso e incisivo, anche se l’espansione del canto e lo slancio drammatico sono risultati ancora in via di maturazione e al momento un po’ al di sotto della parte. Impressionante invece l’Azucena di Clémentine Margaine, per impatto vocale – omogeneo e pastoso in tutta l’estensione quanto sicurissimo (fatta eccezione per qualche emissione non perfettamente a fuoco) a dispetto del volume monumentale – e per forza interpretativa, altalenante tra allucinazione e introversa cupezza, a servizio di un personaggio a tratti sconvolgente per potenza drammatica. Chiamato all’ultimo a sostituire il collega indisposto, Giovanni Meoni ha risolto una parte di grande responsabilità come quella del Conte di Luna con sicurezza e misura, forse senza grandi emozioni ma di sicuro con grande professionalità, mentre Roberto Tagliavini è stato un Ferrando di spicco, elegante e autorevole, insieme ai validi Carmen Lopez (Ines), Didier Pieri (Ruiz), Enrico Picinni Leopardi (un messo), Sandro Pucci (un vecchio zingaro).

Francesco Ivan Ciampa ha diretto gli encomiabili orchestra e coro – preparato da Gea Garatti Ansini – del Teatro Comunale di Bologna (coproduttore dello spettacolo) con sicurezza, con convinzione e con apprezzabili intenzioni, a volta andate felicemente a segno ai fini di una tensione narrativa, a volta meno, soprattutto in alcune scelte un po’ indugianti e teatralmente meno risolutive per poter parlare di un Trovatore totalmente a fuoco.

Visto il 1 ottobre al Teatro Regio di Parma