Amleto di Faccio a Verona: destinato ad essere o non essere?

Un recupero rarissimo quello dello sfortunato Amleto di Franco Faccio, musicista scapigliato quanto obliato di Verona, che Fondazione Arena ha riproposto in un’edizione di grande successo ma ugualmente impossibilitata a evitare un dubbio amletico sull’effettiva riabilitazione dell’opera. Davide Annachini

Programmato già per il 2020 e poi saltato a causa del Covid, l’Amleto di Franco Faccio si presentava quale omaggio della Fondazione Arena di Verona al suo illustre concittadino, passato alla storia soprattutto come uno dei primissimi direttori d’orchestra degni di tal nome, in particolare per il repertorio verdiano, di cui tenne a battesimo alcune prime scaligere come Aida e Otello. In realtà la professione di direttore d’orchestra sembrò rivelarsi un ripiego a seguito dell’insuccesso del compositore, allineato insieme all’amico fraterno Arrigo Boito nelle prime fila della Scapigliatura, movimento di pensiero e d’arte ambizioso nel cercare di opporsi alla cultura italiana di tradizione ma spesso velleitario e fallimentare nei risultati. Se Amleto – su libretto dello stesso Boito, quanto mai artificioso nella ricerca ossessiva di un linguaggio desueto e spesso impenetrabile, per quanto fedele a Shakespeare – fu salutato da un certo successo alla prima genovese del 1865 (ma si parlò di un grosso contributo della claque), la sua proposta in una nuova versione alla Scala nel 1871 naufragò, al punto che dopo l’unica recita Faccio ritirò la partitura e non volle più saperne di comporre. Il musicista attribuì la colpa in particolare al protagonista – l’illustre tenore Mario Tiberini, indisposto e autore di improvvisazioni d’emergenza che stravolsero l’esecuzione – ma in realtà l’opera presentava di per sé un’evidente discontinuità d’ispirazione, una ricerca di teatralità e di rottura delle tradizionali forme “chiuse” del melodramma difficili da definirsi risolte e soprattutto una scrittura vocale al limite dell’eseguibile, come quella di Amleto – massacrante per la tessitura impiccatissima – o come quella profondissima di ben sei bassi inclusi in locandina. Se storicamente la fortuna arrise invece al coevo Hamlet di Ambroise Thomas, grand-opéra francese del 1868 forse musicalmente non eccelso ma popolarissimo ancora per mezzo secolo grazie alle grandi occasioni virtuosistiche offerte ai due protagonisti (un autentico cavallo di battaglia per tutti i più famosi baritoni, da Battistini a Titta Ruffo, e per tutti i soprani di coloratura, dalla Melba alla Tetrazzini, alla Pareto), la cosa è in parte attribuibile proprio alle proibitive pretese vocali dell’opera di Faccio, che in un’epoca di monopolio divistico da parte dei cantanti inevitabilmente la escludevano da qualsiasi possibilità di restare in repertorio.

Bene ha fatto Cecilia Gasdia, sovrintendente areniana, a credere nel recupero a più di centocinquant’anni di questo lavoro del musicista veronese, che è stato proposto in una versione non ancora critica e riferita ad entrambe le edizioni dell’opera, visto che il finale milanese andato perduto è stato integrato con quello originale genovese. E l’ascolto, al di là delle infinite suggestioni riferibili soprattutto al primo Wagner e alle più diverse contaminazioni musicali, ha dato modo di rivelare una strumentazione raffinata e alcuni squarci pregevoli, come la marcia funebre per il compianto sulla morte di Ofelia. Nonostante le difficoltà esecutive l’edizione presentata al Teatro Filarmonico ha brillato per rispondenza e omogeneità, a partire dall’Amleto di Angelo Villari, tenore spinto in grado di reggere una parte sfiancante per non dire distruttiva con grande slancio, sicurezza e tenuta vocale di ferrea smaltatura, insieme a una definizione del personaggio di cupo livore. Bravissima anche Gilda Fiume come Ofelia, di soave e trasognata dolcezza, e altrettanto valida per slancio drammatico e facilità nell’acuto la regina Gertrude di Marta Torbidoni, insieme al solido re Claudio di Damiano Salerno. Bravi tutti gli altri, dal Polonio di Francesco Leone all’Orazio di Alessandro Abis, dal Marcello di Davide Procaccini al Laerte di Saverio Fiore, dallo Spettro di Abramo Rosalen all’Araldo di Enrico Zara, per arrivare agli altri interpreti dei ruoli minori.

Giuseppe Grazioli, alla guida dell’Orchestra e del Coro (preparato da Roberto Gabbiani) dell’Arena di Verona ha saputo valorizzare i momenti più pregevoli della partitura con grande risalto strumentale e quelli più discontinui con appassionata convinzione, riuscendo a restituire l’impatto di un’opera a suo modo coinvolgente e talvolta emozionante. Da parte sua, Paolo Valerio ha impostato una regia misurata nell’allestimento (scene e projection design di Ezio Antonelli, costumi di Silvia Bonetti, luci di Claudio Schmid) ma molto efficace nelle soluzioni sceniche, in grado di assicurare una tenuta drammaturgica e un rilievo dei personaggi anche laddove la giovane e idealista coppia Faccio-Boito poteva mostrare più la presunzione che l’effettivo raggiungimento degli obiettivi.

Caldissimo il successo di pubblico per l’esecuzione e di sicuro per questa rarità riesumata dall’oblio, destinata comunque ad incontrare non poche difficoltà per sperare di poter continuare a camminare con le proprie gambe.

 

Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 22 ottobre