I laser di Aida e un firmamento di stelle illuminano il centenario dell’Arena di Verona

Rompendo gli schemi della tradizione areniana, l’Aida fantascientifica firmata da Poda si è imposta come spettacolo di punta della centesima stagione del festival veronese, insieme a fortunate riprese storiche e alla partecipazione di tante star di livello internazionale.

Davide Annachini

Lo spettacolo su cui si incentravano le maggiori aspettative della ricchissima centesima stagione dell’Arena di Verona, firmata da Cecilia Gasdia, era sicuramente Aida, vuoi perché si trattava di una nuova produzione dopo tante riprese di storici allestimenti, vuoi perché la scelta di un regista come Stefano Poda faceva intuire che si sarebbe trattata di una versione molto personale e distante dalla tradizione delle messinscene areniane. In realtà almeno in una cosa l’Aida di Poda ha tenuto fede allo stile areniano, nella spettacolarità, raggiunta però non grazie alla monumentalità scenografica quanto a quella dei giochi di raggi laser, di superfici specchianti, di costumi sontuosi, in grado di anteporre una cifra astratta e fantascientifica, visionaria e lunare, di un mondo non più proiettato a un Egitto archeologico di cartapesta ma a una realtà del futuro o, meglio ancora, virtuale, mentale, onirica. Quindi piramidi sì, ma di illusoria imponenza luminosa, coralità sì, ma di una civiltà non più gerarchica quanto magmatica, nel suo dilagare sulla scena fagocitando gli stessi protagonisti, vittime di un destino più grande di loro. E soprattutto la scelta di far parlare come pura scenografia la cavea areniana – illuminata nello splendore delle sue gradinate sia in piena luce che al “negativo”, quasi una visione radiografica ne rendesse immateriale la monumentalità – costituiva il tocco geniale di questa produzione, come nella storia del festival forse solo Luciano Damiani aveva avuto il coraggio di osare nel lontano 1969, per un’Aida e un Don Carlo rimasti nella memoria grazie alla loro superba essenzialità. La colossale mano mobile in filigrana, presenza incombente pronta a esaltare o a minacciare la storia, come a prendere corpo o a sparire a seconda della luce, era il simbolo della messinscena di Poda (factotum per regia, scene, costumi e coreografie) in un’edizione di lusso anche per la scelta del cast, dominato da una number one come Anna Netrebko. Stella universale tra i cantanti d’oggi, il soprano russo ha riproposto un’Aida sontuosa per vocalità nei primi due atti ma ha letteralmente spiccato il volo nel terzo e nel finale dell’opera, dove i suoi pianissimi – in grado di riempire l’Arena – non rappresentavano un mero virtuosismo vocale ma l’espressione di un canto sognante, intimo, sospeso, che ha toccato l’apice in un celestiale “O cieli azzurri”, con tanto di do acuto filato in un soffio proprio come l’aveva prescritto Verdi. Il suo compagno di vita e di scena, Yusif Eyvazov, è stato un Radames all’altezza nel saper sopperire a un timbro ingrato con una linea vocale ammirevole, un accento eroico propriamente verdiano e una personalità scenica che non hanno sfigurato rispetto alla celebre primadonna ma che al contrario hanno esaltato il perfetto affiatamento della coppia. Per il resto è risultata invece alterna l’Amneris di Olesya Petrova, ricca voce di mezzosoprano nei centri ma dissestata nei gravi e talvolta stridula sugli acuti, mentre assolutamente esemplare è stato l’Amonasro di Amartuvshin Enkhbat, forse il migliore baritono in circolazione quanto a qualità timbrica e nobiltà di canto (davvero incredibile in un cantante proveniente dalla lontana Mongolia), affiancati dall’ottimo Ramfis del basso Christian Van Horn e dall’autorevole Re di Simon Lim. Marco Armiliato al podio dell’Orchestra e del Coro dell’Arena (preparato da Roberto Gabbiani) ha fatto valere il collaudato mestiere maturato al festival veronese, che richiede a un direttore di tenere le fila di masse artistiche abnormi e – specialmente quest’anno – di interpreti a rotazione, con l’inevitabile escamotage di optare per tempi dilatati, meno a rischio rispetto a quelli incalzanti, al fine di evitare scollamenti esecutivi pericolosi.

Questa linea esecutiva – più distesa, cauta e al servizio delle voci – è stata comune un po’ a tutte le bacchette presenti al festival, da Andrea Battistoni in Traviata a Francesco Ivan Ciampa in Tosca, sino ad un habitué dell’Arena quale Daniel Oren, autentico specialista di Nabucco anche se questa volta interprete più meditato e sommesso del solito, per un’edizione che trovava il suo punto di forza di nuovo in Amartuvshin Enkhbat, protagonista magnifico per autorevolezza vocale e nobiltà espressiva, affiancato a distanza dall’Abigaille molto discontinua di Maria José Siri, dal pregevole Zaccaria di Alexander Vinogradov, dalla valida Fenena di José Maria Lo Monaco, dal funzionale Ismaele di Matteo Mezzaro. Per l’occasione è stato rispolverato a dovere l’allestimento del 1991, con le imponenti ziggurat di Rinaldo Olivieri e la regia classicamente composta di Gianfranco de Bosio, come per Tosca si è ritrovato lo spettacolo del 2006 a firma totale di Hugo De Ana, tuttora per imponenza, ricchezza e genialità una delle messinscene più affascinanti viste in Arena. Il cast metteva sul piatto ancora certi bagliori vocali ed espressivi di un grande tenore come Roberto Alagna, Cavaradossi di luci e ombre ma pur sempre intrigante, in coppia con la compagna di vita e di scena Aleksandra Kurzak, Tosca di temperamento e fascino anche se dalla vocalità non del tutto idonea alla parte, comunque abilmente risolta, e insieme allo Scarpia imponente ma anche misurato di Luca Salsi. Di diverso impatto il cast subentrato in seconda battuta, dove si sono segnalati la Tosca impetuosa e passionale – ma vocalmente non sempre rifinita –  di Sonya Yoncheva e lo Scarpia al contrario nobile e raffinato del bravissimo Roman Burdenko, che hanno arginato a malapena l’esuberanza sempre più votata all’effetto plateale del Cavaradossi di Vittorio Grigolo, tenore di bella voce (ma dal canto portato allo spasmo muscolare) e di aitante prestanza scenica (ma tutta giocata a un protagonismo un po’ guascone).

Per Traviata si trattava della ripresa del fastoso e ultimo allestimento a firma di Franco Zeffirelli, con protagonista Lisette Oropesa, una Violetta in grado di sopperire a certa mancanza di espansione vocale con  un canto impeccabile e un’intelligenza interpretativa ammirevole, espressa al meglio in un toccante ultimo atto. Equilibrato il resto del cast, con l’Alfredo di Francesco Meli, che, alle prese con una parte idonea alle sue corde di tenore lirico, ha forzato meno e ha convinto più del solito, e con il Germont di Simone Piazzola, baritono chiaro ed elegante, perfettamente centrato in questo ruolo. Di qualità alterna la schiera dei personaggi di contorno, come in tutte le altre opere in cartellone.

E, tra le tante stelle che hanno brillato in questa edizione centenaria del festival, impossibile non ricordare un altro number one come Juan Diego Florez, che, dopo il suo debutto areniano quale Duca di Mantova in Rigoletto, ha entusiasmato con un gala raffinatissimo, che da Rossini a Puccini ha toccato il suo repertorio più celebre (Cenerentola, Fille du régiment, Roméo et Juliette) come quello solamente vagheggiato (Luisa Miller, Bohème e addirittura Turandot) con lo stile insuperabile di sempre e con una sequela di do acuti tuttora fulminanti, per finire in una serie di bis alla chitarra che hanno incantato il pubblico, in un silenzio rapito e irreale per un teatro così poco confidenziale come l’Arena. Di impatto molto più popolare invece il gala che ha visto l’ennesimo ritorno di Placido Domingo a Verona, a più di mezzo secolo dal suo debutto, dove al di là dei segni del tempo e della stoica determinazione di restare ancora sulla scena da parte del tuttora amatissimo tenore/baritono, si sono fatti valere alcuni dei suoi numerosi compagni di serata, come una strepitosa Jessica Pratt, una Mariangela Sicilia sempre più interessante, una deliziosa Giulia Mazzola e un tenore lirico-spinto da tenere d’occhio, Angelo Villari.

Visti il 30 luglio (Aida), 29 luglio – 5 agosto (Tosca), 27 luglio (Traviata), 15 luglio (Nabucco), 23 luglio (Gala Florez), 6 agosto (Gala Domingo)