Edizione sofisticata e sempre di qualità per il Rossini Opera Festival, in attesa di festeggiare per il 2024 Pesaro Capitale italiana della cultura. Davide Annachini
Si può dire che la 44^ edizione del Rossini Opera Festival sembrava destinata ai palati fini – per non dire esclusivi – nel mettere in programma tre titoli seri, drammaturgicamente analoghi, non propriamente accattivanti e nemmeno tra i più riusciti di un genio assoluto come il Pesarese, tra cui una rarità come Eduardo e Cristina, che per la sua natura ibrida di “centone” (in pratica un pastiche di pagine tratte da opere precedenti) il Festival aveva sempre rimandato a data da destinarsi. Vista però l’alta qualità di una rassegna monografica così specializzata, la scelta si giustificava perfettamente come ultimo titolo mancante, anche a scapito di una minore risposta di pubblico, già ridimensionato da un sensibile calo di presenze turistiche sulla riviera adriatica.
Eduardo e Cristina costituiva in ogni caso il titolo più appetibile, quantomeno come curiosità in cui ritrovare l’origine di così tanti autoimprestiti, una pratica assai diffusa nel primo Ottocento e che Rossini sapeva adottare con abilità camaleontica, trasferendo spesso un brano da un’opera seria a una buffa con sorprendente trasformismo. In questo caso il gioco non sembra essergli riuscito come altrove, tanto questo lavoro – confezionato in tutta fretta per il Teatro San Benedetto di Venezia in un anno fecondissimo come il 1819 – risulta sbilanciato tra un primo atto discontinuo e un secondo decisamente più coinvolgente. Ma è soprattutto il soggetto – ambientato in una Svezia di cartapesta, tra una guerra contro la Russia e gli amori clandestini quanto contrastati dalla ragion di Stato dei due protagonisti – a non reggere e a scivolare sulla definizione dei personaggi, convenzionali fintanto un autoimprestito più riuscito (i migliori sono quelli ricavati dalla coetanea Ermione) non li infiammi e li renda teatralmente interessanti. Questo comporta quasi sempre un impegno anche sotto il profilo vocale, che destina ai tre personaggi principali un virtuosismo drammatico al solito esigentissimo. A Pesaro si è segnalato un terzetto perfettamente in linea con il livello specialistico del R.O.F., che vedeva in primis il ritorno ai ruoli en travesti di una fuoriclasse come Daniela Barcellona, forse meno smagliante virtuosisticamente di un tempo ma assolutamente cresciuta come interprete, in grado di restituire a un personaggio privo di autentico spessore come Eduardo una sua nobiltà autorevolissima, intensa e sofferta. Enea Scala – che l’anno passato si era imposto come elettrizzante Otello – nei panni del re Carlo ha confermato, al di là di certe disuguaglianze timbriche, di padroneggiare l’iperbolica vocalità del tipico baritenore rossiniano, spaziando dalle note gravi a quelle sovracute con grande sicurezza e con un impeto eroico da autentico protagonista. La rivelazione è stata comunque Anastasia Bartoli, che, lasciati per un attimo i ruoli del primo Verdi, è stata una Cristina di grande fascino vocale e scenico, nel rivelare una vocalità suggestiva nel timbro e raggiante sugli acuti tale da far sperare in un promettente futuro anche in questo repertorio, in particolare nei drammatici ruoli “Colbran”, scritti da Rossini per la celeberrima moglie soprano.
Diretta con convinzione un po’ esuberante nelle sonorità da Jader Bignamini, a capo dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e del Coro del Teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina, l’edizione si presentava in una nuova produzione a firma totale di Stefano Poda, nome gettonato in queste ultime inaugurazioni estive. Già come per Aida a Verona, Poda ha imposto la sua cifra astratta, simbolica e dichiaratamente estetizzante a servizio di un’opera che poco di credibile aveva a livello drammaturgico, giocando su un allestimento sottovetro, da cui affiorava una civiltà congelata in contrasto con quella vitale quanto enigmatica tipica delle sue regie, stilizzata nei nudi dei mimi-danzatori e in una gestione delle masse dai rigori geometrici. Al solito impeccabile la messinscena, con scene, costumi, luci e coreografie dello stesso Poda, di grande fascino per gli amanti del bello teatrale e di un’idea registica che più che spiegare sembrava anche in questo caso evadere in dimensioni oniriche e surreali.
Pregevoli anche se meno eclatanti gli altri due spettacoli, Aureliano in Palmira e Adelaide di Borgogna, opere entrambe in odore di teatro dei pupi quanto a soggetto, epico da un lato e cavalleresco dall’altro, nonostante per l’una certa convenzionalità riesca a giustificarsi in un Rossini che nel 1813 poteva ancora considerarsi di prima maniera mentre per l’altra risulti come un passo indietro per un compositore già all’apice della carriera solo quattro anni dopo. Diverso invece è il discorso della qualità musicale, altalenante tra un Rossini talvolta dalla mano sinistra e talvolta ispiratissimo.
Difficile appare anche in questo caso l’impresa per un regista, sia per chi prenda sul serio la storia – come nel caso di un interprete intelligente e rispettoso come Mario Martone, che in questa ripresa dell’Aureliano (una produzione del 2014) è risultato però poco incisivo, in un allestimento elegante quanto fin troppo contenuto, a firma di Sergio Tramonti per le scene, Ursula Patzak per i costumi, Pasquale Mari per le luci – sia per chi tenda a rivoltarla in chiave ironica, come invece ha preferito fare l’arguto regista francese Arnaud Bernard, nel concepire per la sua regia di Adelaide il backstage di una messinscena dell’opera, siglato dalle pittoresche controscene (alla lunga però eccessive) di un teatro nel teatro fatto da armigeri, damigelle e fondali dipinti della più oleografica tradizione melodrammatica (scene di Alessandro Camera, costumi di Maria Carla Ricotti, luci di Fiammetta Baldiserri).
Giovane e molto equilibrata era la compagnia dell’Aureliano in Palmira, con una bravissima, svettante e pugnace Sara Blanch come Zenobia, un’intensa e vibrante Raffaella Lupinacci en travesti come Arsace e un vocalmente atletico anche se timbricamente poco smaltato Alexey Tatarintsev come Aureliano, sotto la direzione davvero ragguardevole per piglio e resa drammaturgica di George Petrou, alla guida dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini e del Coro del Teatro della Fortuna preparato da Mirca Rosciani. Altrettanto valida, anche se meno omogenea, è risultata quella di Adelaide di Borgogna, dove ha spiccato per impasto timbrico, virtuosismo e presenza scenica l’Ottone del mezzosoprano armeno Varduhi Abrahamyan, insieme al solare Adelberto dallo squillo tenorile di René Barbera, all’Adelaide valida anche se un po’ limitata nelle sfumature e nella morbidezza del registro acuto di Olga Peretyatko, all’ottimo Berengario di Riccardo Fassi. A capo dell’Orchestra Sinfonica della Rai e del Coro del Teatro Ventidio Basso, Francesco Lanzillotta ha diretto con eleganza, misura e slancio alla prima recita, rimanendo però poi vittima di un infortunio stradale che gli ha impedito di intervenire nelle repliche.
Al di là delle presenze un po’ ridotte rispetto all’abituale, il successo è stato caldissimo e unanime per tutte e tre le opere, a conferma di una qualità a cui il R.O.F. non è mai venuto meno e che per il 2024 – anno che vedrà Pesaro eletta a Capitale italiana della cultura – preannuncia un’edizione ancora più ricca del solito, con due titoli seri in nuove produzioni (Bianca e Falliero ed Ermione), la ripresa di due opere buffe (L’equivoco stravagante e Barbiere di Siviglia) e uno stellare Viaggio a Reims in forma di concerto, a quarant’anni dalla leggendaria riesumazione firmata da Claudio Abbado e Luca Ronconi.
Visto al Rossini Opera Festival di Pesaro l’11, 12, 13 agosto