Il riscatto dell’infelice Beatrice di Tenda al Carlo Felice di Genova

La fortunatissima riproposta genovese della sfortunata Beatrice di Tenda ha riportato in luce le qualità musicali dell’ultimo Bellini grazie a un’esecuzione dai tanti meriti e con una sontuosa protagonista come Angela Meade. Davide Annachini

Nella produzione eccelsa di Vincenzo Bellini Beatrice di Tenda rappresentò uno dei rarissimi nei, per il fatto di non aver riscosso alla prima veneziana del 1833 quel successo a cui il musicista catanese era abituato, tanto da spingerlo ad attribuirne la causa al lavoro del librettista, pur trattandosi del prestigioso e fedelissimo Felice Romani, con cui aveva condiviso i suoi massimi capolavori, come I Capuleti e i Montecchi, Il Pirata, La Straniera, La Sonnambula, Norma. La rottura tra i due ebbe strascichi addirittura sulla stampa, al punto da toccare anche il privato del fascinoso compositore, visto che Romani non mancò di rilasciare velenose allusioni sulla relazione clandestina di Bellini con Giuditta Turina, consumata per anni sotto il tetto dello stesso marito, probabilmente consenziente ma a questo punto costretto a ripudiare pubblicamente la moglie per salvare l’onore del casato. Bellini, senza poter più contare sulla ricca ospitalità del Turina e con un’amante da tenersi a carico, preferì cinicamente la fuga per Parigi, dove la sua breve esistenza – con l’ultimo trionfo dei Puritani – si sarebbe conclusa in una tragica aura di mistero, in perfetta quanto leggendaria soluzione romantica.

Oltre a tutto questo, alla povera Beatrice di Tenda si sono fatte scontare troppe colpe, soprattutto sotto il profilo musicale, perché, anche se l’opera in effetti insiste sulla nota melanconica e su una monocorde cupezza, le pagine degne di stare al livello del migliore Bellini per l’ineffabile lirismo ci sono, eccome. Sono per lo più legate alla protagonista, ma non solo, insieme a squarci di grande intensità drammatica che caratterizzano soprattutto i grandi concertati. Il convenzionale soggetto quattrocentesco – imposto dall’oberatissimo Romani, forse per mancanza di tempo – ripropone d’altronde la consumata liaison “a quattro”, in cui ognuno ama un altro senza essere ricambiato, con la partecipazione di effettivi personaggi storici, nel qual caso Beatrice, contessa di Tenda, già vedova e moglie in seconde nozze del giovane e ambizioso Filippo Maria Visconti, duca di Milano, che invaghitosi di Agnese del Maino non ci pensa troppo ad accusare la moglie di tradimento con Orombello, innamorato platonicamente di Beatrice ma a sua volta desiderato da Agnese. La conclusione con il patibolo per i due innocenti suggella una tragedia da tipico romanzo storico, che solo tre anni prima Donizetti aveva ampiamente sdoganato con Anna Bolena e con la stessa protagonista, la leggendaria Giuditta Pasta.

Purtroppo anche la stessa Pasta contribuì suo malgrado allo scarso successo dell’opera, avendo le tessiture acute dei ruoli scritti per lei da Bellini – Amina, Norma e per l’appunto Beatrice – ormai compromesso la sua vocalità originaria di contralto, forzata a cantare da soprano e di conseguenza deterioratasi nel giro di pochi anni. Destinata quindi a grandi primedonne, quella di Beatrice resta una parte scomoda che poche hanno tenuto in repertorio – forse solo la Sutherland – e che altre hanno appena toccato, dandosi poi alla fuga – come nel caso di una Freni -, data la difficoltà di cantare piano e con un legato levigatissimo su una scrittura molto elevata, quanto di alternare l’abbandono elegiaco allo scatto incisivo e di risolvere con il dovuto virtuosismo tutta la componente belcantistica, peculiarità che fanno di questo un classico ruolo per soprano drammatico d’agilità.

L’Opera Carlo Felice di Genova ha vinto la scommessa di riportare in scena un’opera così impegnativa puntando innanzi tutto su una protagonista all’altezza, che ha trovato risposta nella statunitense Angela Meade – voce monstre per ampiezza, estensione, versatilità –, una delle poche cantanti in grado di misurarsi con queste grandi parti, nel risolvere tanto l’aspetto drammatico quanto quello estatico con un timbro scuro capace di trascolorare in piani dolcissimi, come di vibrare a livello espressivo anche negli slanci più tesi con grinta e personalità, a dispetto di una presenza scenica monumentale. Alcuni potranno avanzare riserve su una qualità vocale non sempre omogenea (cosa d’altronde comune a tutte queste voci abnormi per potenzialità) come su una discontinuità d’emissione dovuta anche ad un’attività spesa in un repertorio incredibile per vastità e pesantezza (basti pensare che il prossimo ruolo messo in cantiere dalla Meade sarà Turandot!) ma è innegabile l’impatto con cui questo soprano riesce ad imporsi, dimostrato nel qual caso già dall’aria di sortita, che ha letteralmente fatto venire giù il teatro dagli applausi.

Ma la Meade non giocava da sola e lo si è capito dalla presenza di un fronte maschile agguerritissimo, con il Filippo di Mattia Olivieri e l’Orombello di Francesco Demuro. Il primo ha rivelato una vocalità di baritono maturata nell’ampiezza quanto nella densità del colore, di bellissimo impasto, in grado di svettare con sicurezza e di imporsi anche per il risalto espressivo, unito all’intrigante presenza scenica da diabolico e cinico bellimbusto. Da parte sua Demuro ha cantato con linea impeccabile un’autentica parte di tenore elegiaco, dalle incantevoli melodie tipiche del Bellini più ispirato – come nel caso del famoso “Angiol di pace” –, ma ha saputo anche far fronte alle impennate drammaticamente risolutive con acuti e sovracuti di fulminante lucentezza e squillo. Carmela Remigio è stata poi un’Agnese convincente sotto il profilo scenico e anche vocale, nonostante il timbro non particolarmente luminoso, mentre Manuel Pierattelli (Anichino) e Giuliano Petouchoff (Rizzardo) hanno garantito le parti di fianco.

Riccardo Minasi, alla guida dei validi organici del Carlo Felice (Claudio Marino Moretti, maestro del coro), ha diretto con autorevolezza e vitalità drammaturgica un’opera così facilmente portata a languire in un’immobilità a rischio d’inerzia, mettendo in luce anche un’apprezzabile sensibilità stilistica, fatta eccezione per qualche evitabile taglio nei da capo dei concertati e per l’assenza di variazioni nelle cabalette della protagonista, compensate per altro dalle spavalde puntature dei due interpreti maschili.

Lo spettacolo di Italo Nunziata (in coproduzione con la Fenice di Venezia), al di là dell’innocuo spostamento di epoca a un non meglio giustificato tardo Ottocento, non pretendeva avanzare letture stravolgenti, nel saliscendi di pannelli squarciati a firma di Emanuele Sinisi, nei costumi rigorosamente neri di Alessio Rosati e nelle atmosfere plumbee dettate dalle luci di Valerio Tiberi, limitandosi principalmente a fare da cornice alla musica, che ha avuto modo di imporsi una volta tanto da autentica protagonista, con festosa accoglienza da parte del pubblico, generosissimo negli applausi per tutti gli interpreti.

 

Visto il 17 marzo all’Opera Carlo Felice di Genova