L'inquilino

L’inquilino

La pièce del drammaturgo-attore-regista Fabio Banfo, dal sapore vagamente pinteriano, tende a sfuggire continuamente di mano, riflettendo comunque la fase di livido smarrimento collettivo che stiamo attraversandoRenato Palazzi

L’inquilino, la pièce del drammaturgo-attore-regista Fabio Banfo in scena al Teatro Franco Parenti, è un testo dal sapore vagamente pinteriano che tende però ad annodarsi, a sfuggire continuamente di mano. L’ossatura della vicenda, di per sé, non sarebbe male: è l’intreccio delle infelicità, delle ansie, delle cupe solitudini di quattro personaggi, oltre a un quinto che però è sempre presente ma non appare mai direttamente, essendo morto – apprendiamo – prima dell’inizio. È lui l’inquilino cui si riferisce il titolo. È lui e siamo noi, suggerisce il testo: noi che passiamo per un attimo dalle nostre vite come i temporanei abitanti di un appartamento che se ne vanno lasciando dietro di sé labili tracce.

In questo caso l’inquilino in questione è crollato al suolo di schianto un quarto d’ora dopo aver deciso di affittare una stanza in casa di un aspirante giornalista senza grandi prospettive, e non si è potuto fare nulla per tentare di salvarlo. Sulle sue tracce arriva – e si installa nella camera già occupata dall’uomo – Emma, la sorella che con lui aveva un rapporto incestuoso, come lei si affanna a informarci, e che è una creatura disincantata, prosciugata emotivamente, indurita da un’esperienza da intrattenitrice nei locali notturni. Cerca qualcosa che era appartenuto al fratello, forse uno scritto, forse soltanto una qualsiasi spiegazione.

Luca, l’aspirante giornalista, squattrinato e con le idee confuse (almeno in questo ci siamo), sta con Teresa, che al contrario è iper-determinata e, si direbbe, piuttosto arrivista. I due, che stanno per sposarsi, cercano casa a loro volta, e queste visite ad alloggi o troppo modesti o troppo costosi per loro è fonte di incessanti tensioni e frustrazioni. Emma ha dunque buon gioco nell’insinuarsi fra i due, provocando, sobillando, spiattellando scomode verità, e mettendone così in crisi la fragile relazione.

Luca decide che non ama Teresa, e che quindi non la sposerà, anzi che accelererà addirittura le nozze, ma a ogni buon conto ci prova con Emma. Teresa, intanto, se la fa con l’agente immobiliare sul pavimento della cucina, poi lo confida a Emma, che si affretta a riferirlo a Luca, il quale in realtà non appare troppo turbato dalla notizia. Emma, che sembra l’unica capace di vera disperazione, chiede a Luca di aiutarla a farla finita, e dopo il suo rifiuto coinvolge l’agente immobiliare in un giochetto sado-masochista, facendosi volontariamente e consapevolmente uccidere da lui.

Fin qui la nuda dinamica dei fatti, che a mio avviso – al di là di qualche eccesso melodrammatico – potrebbe fornire un attendibile rispecchiamento interiore di una fase di livido smarrimento collettivo come quello che stiamo attraversando. Mi ha colpito, del testo, un che di spietato, di radicalmente e inesorabilmente non-accattivante che lo contraddistingue, e che caratterizza tutti i personaggi: quella raffigurata crudelmente dall’autore è un’umanità di sradicati, di naufraghi che neppure provano a tenersi a galla l’un l’altro. L’unica, autentica passione che vi si coglie è, non a caso, quella di Emma nei confronti del fratello, è il legame con un morto da parte di una che vuole morire.

Quello che invece non mi ha convinto affatto è la pretenziosa costruzione letteraria imposta e sovrapposta a questo groviglio di sentimenti, è il fatto che ognuno, non appena ne ha il pretesto, comincia a dissertare, a illustrare, a parlare come un libro stampato. Quanto più la loro natura è ferina, tanto più paiono ingabbiati in un rigido artificio verbale. E dichiarando, esplicitando ogni cosa non rendono la materia più dura, anzi la attenuano, la normalizzano. Dia retta Banfo: se non si vedesse Teresa accoppiarsi con l’agente immobiliare, se lei lasciasse solo intendere di averlo fatto, ma mantenendo – pinterianamente, appunto – una certa ambiguità, se Emma non chiarisse tutto, non raccontasse tutto, se qualcosa ce la facesse semplicemente intuire, sospettare, il testo ne verrebbe enormemente valorizzato.

Anche gli interventi della cantante-chitarrista Barbara Cavaleri, seppur pregevoli, risultano superflui, sono un di più che non aggiunge ma rallenta. Da un andamento più sospeso, più allusivo guadagnerebbe l’intero spettacolo. Ne guadagnerebbe la scarna regia del giovane Fabio Cherstich, che manovra e combina fra loro quelle quattro figure come fossero oggetti di una gelida osservazione scientifica. E ne guadagnerebbero gli attori, in particolare le due donne, Silvia Giulia Mendola e Cinzia Spanò, che svolgono un lavoro introspettivo più inquieto e complesso rispetto alle controparti maschili, Alberto Onofrietti e Corrado Accordino.

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano

L’inquilino
di Fabio Banfo
regia e spazio scenico: Fabio Cherstich
costumi: Sara Grittini
musiche originali dal vivo: Barbara Cavaleri
con: Silvia Giulia Mendola, Alberto Onofrietti, Cinzia Spanò, Corrado Accordino