Per ricordare Egisto Marcucci

Se n’è andato silenziosamente pochi giorni fa all’età di 83 anni un regista che pur non aspirando, per indole e vocazione, a rivoluzionare il teatro, ha lasciato la sua impronta in tante piccole o grandi evoluzioni della scena del suo tempo, portando in ogni esperienza un prezioso contributo di rigore, misura e intelligenzaRenato Palazzi

Se avesse diretto un grande teatro stabile – di quelli che oggi sono diventati teatri nazionali – un regista della statura di Egisto Marcucci, morto pochi giorni fa all’età di ottantatré anni, avrebbe avuto dedicate intere pagine. Ma Egisto non aspirava a cariche o poltrone: ha sempre seguito un suo personale percorso creativo sullo stretto sentiero fra istituzioni e produzioni indipendenti – una volta si sarebbe detto tra organismi pubblici e privati – senza prese di posizione e logiche di schieramento. Così, da quando una grave malattia ne aveva interrotto la carriera artistica, il suo nome era stato a poco a poco messo da parte, quasi dimenticato, e neppure ora gli è stata data una degna attenzione.

Nato come attore, diplomato nel ’61 alla Scuola d’Arte Drammatica di Milano, che allora era la scuola del Piccolo Teatro, era approdato a una propria piena identità registica dopo un percorso di maturazione avvenuto soprattutto all’interno del Gruppo della Rocca: si sta parlando, per chi non lo sapesse, di una delle prime e certo la più importante fra quelle cooperative teatrali che, dalla fine degli anni Sessanta, hanno contribuito a mutare il volto della scena italiana di allora muovendosi in una prospettiva più agile e legata al territorio, svecchiando il repertorio, perseguendo uno stile espressivo meno paludato e formale di quello imposto dai grandi demiurghi della scena per coinvolgere un pubblico diverso da quello degli abbonati degli stabili.

Proprio per il Gruppo della Rocca aveva diretto i suoi primi spettacoli, Il sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, nel 1972, Schweyk nella seconda guerra mondiale, un testo brechtiano affrontato senza troppe sottomissioni ai dettami del teatro epico, 23 svenimenti, un divertente collage di situazioni da testi brevi, atti unici e racconti di Cechov. Ma la vera svolta era avvenuta tra il ’76 e il ’78 con la scoperta di un autore mai rappresentato in Italia, il russo Nicolaj Erdman, straordinario ingegno satirico messo a tacere dalla censura staliniana, feroce osservatore dei vizi della società sovietica post-rivoluzionaria, affrontato nella doppia messinscena de Il mandato e Il suicida.

Se un limite si poteva ascrivere, col senno di poi, all’encomiabile esperienza delle cooperative, è il fatto che – specialmente nei primi anni, gravati da un certo clima di battaglia ideologica – esse tendevano a trincerarsi in un rigido collettivismo, rischiando di soffocare i talenti individuali e di esaurire il proprio slancio in un’incombente uniformità estetica. Il mandato e Il suicida ruppero clamorosamente questo schema un po’ grigio, lo fecero deflagrare in un’accensione di fantasia, non solo per la struttura dei testi, che sono due travolgenti farse “nere”, caustiche spudoratamente esilaranti, ma per la natura stessa dei loro allestimenti, colorati, vivacissimi, mossi da un’irresistibile vena clownesca.

Il vero successo, eclatante e duraturo, venne però l’anno dopo in occasione della presentazione de La donna serpente di Carlo Gozzi, realizzata allo Stabile di Genova in una dimensione a metà fra la produzione vera e propria e l’iniziativa pedagogica, con la prorompente interpretazione degli allievi della scuola e le mirabolanti scene di Emanuele Luzzati: una torrenziale girandola di invenzioni visive, una festa di teatro quale raramente si poteva vedere sulle nostre ribalte, fresca, scoppiettante, giocosa, senza un attimo di pausa. L’impressione fu grandissima, e il lavoro, da esercitazione scolastica, divenne un trionfale spettacolo richiesto ovunque in Italia e all’estero.

È difficile spiegare, oggi, la portata di quell’impatto sulle platee dell’epoca: in tempi, come si diceva, caratterizzati da una certa seriosità teatrale, tutta volta all’impegno, allo spessore delle idee, quella Donna serpente ebbe come un effetto liberatorio, portò alla riscoperta del puro gusto della magia scenica, degli effetti, dell’infantile abbandono all’incanto dei trucchi e delle apparizioni.

Da quello snodo partì la stagione della grande maturità di Egisto, legata soprattutto agli anni Ottanta e Novanta, in cui mise mano a un’incredibile varietà di progetti: riportò l’attenzione su un autore forse in quel momento non considerato attualissimo come Ionesco, di cui allestì Il rinoceronte col Gruppo della Rocca, ebbe ampia parte nell’indirizzare una fase di assoluta genialità inventiva di Giorgio Albertazzi, cui egli contribuì dirigendolo nel bellissimo Re Nicolò di Wedekind, poi ne La lezione di Ionesco, e curò le regie di diversi altri grandi attori, da Glauco Mauri (Puntila e il suo servo Matti, Macbeth), ad Alberto Lionello (nel lucidissimo exploit pirandelliano de Il giuoco delle parti ) a Carla Gravina (La marchesa von O. di Kleist).

Prolungato e particolarmente fecondo fu il sodalizio con Valeria Moriconi, con la quale mise in scena, fra gli altri, il fortunato Emma B. vedova Giocasta e La nostra anima di Savinio, la Filumena Marturano di Eduardo, il delizioso L’interrogatorio della contessa Maria di Palazzeschi.

Curioso, aperto, attivissimo finché le energie lo hanno sostenuto, è stato co-fondatore, nel ’95, della compagnia I Fratellini, con altri due reduci del Gruppo della Rocca, Marcello Bartoli e Dario Cantarelli: con loro ha realizzato una raffinata rilettura de Le sedie di Ionesco e l’urticante Mein Kampf dell’ungherese Georg Tabori. Ha allestito numerose opere liriche, tra cui si ricordano in special modo L’italiana in Algeri (’81) e Il turco in Italia (’82) di Rossini e L’incoronazione di Poppea di Monteverdi (’88). Ha collaborato anche col Teatro Gioco Vita, la compagnia piacentina specializzata nel teatro d’ombre, firmando due spettacoli, Il castello di Perseveranza e La boite a joujoux di Debussy, realizzato nell’86 per il Teatro alla Scala.

Per indole e vocazione non ha aspirato, probabilmente, ad attuare la rivoluzione del teatro, ma ha lasciato l’impronta in tante piccole o grandi evoluzioni della scena del suo tempo, portando in ogni esperienza un prezioso contributo di rigore, misura e intelligenza.