Tindaro Granata

Nuovo Teatro: anche Tindaro Granata dice la sua

L’autore e attore Tindaro Granata, uno dei talenti più interessanti rivelatisi negli ultimi tempi, ha raccolto (come Babilonia Teatri e Roberto Scappin di Quotidiana.com), l’invito di Renato Palazzi a discutere sulle prospettive del Nuovo Teatro in Italia a partire da alcune criticità. Ecco il suo contributo

Crescere per crescere
Ho letto l’articolo del signor Renato Palazzi e sento di esprimere la mia opinione sull’argomento.L’analisi che Palazzi fa della necessità di crescita dei giovani artisti di oggi, oltre che interessarmi personalmente, in quanto sono “uno degli ultimi” affacciatosi da poco nel mondo della drammaturgia/regia, mi pone domande che mi faccio anch’io da tempo, da quando ancora non sapevo che avrei scritto dei testi teatrali e ne avrei fatto regie.

Credo che tutti gli artisti fortunati che hanno successo con le loro opere prime, si confrontano con la pura di fare il secondo successo, il terzo o il quarto e non sbagliare per non perdere qualcosa. Che Cosa? Che Cosa si perderebbe? La riconoscibilità? L’approvazione degli addetti ai lavori? L’affluenza del pubblico?  Non saprei dirlo concretamente, ma una sorta di paura c’è, e credo che si manifesti, quando un artista non è libero, quando non si ama la propria idea ma si vuole far amare per le proprie idee.

Mi permetto di parlare della mia esperienza personale in relazione a un punto preciso dell’articolo del signor Palazzi (una sindrome da premio Scenario, la tendenza a risolvere argomenti impegnativi in spezzoni ridotti ai fatidici venti minuti, “studi” preparatori, esperienze in divenire che palesemente non porteranno da nessuna parte). Credo che tutto si paghi e di tutto si può godere, ogni nostra scelta può essere quella giusta, solo se si tiene conto della necessità che abbiamo di parlare, di discutere, di analizzare, di affrontare l’argomento che abbiamo deciso di mettere in scena.

Riferendomi allo spettacolo per il quale sono stato citato nell’articolo, Invidiatemi come io ho invidiato voi, la scelta di mettere la testimonianza di un vero pedofilo, la scelta di lavorare recitativamente sul verosimile/naturalistico, la scelta di rivolgersi direttamente al pubblico, la scelta di parlare di un caso di pedofilia, mi ha dato la possibilità di avere un forte confronto con grande passione e intensità con il mio pubblico, di essere riconosciuto in quanto drammaturgo/regista, ma anche di registrare una certa resistenza da parte di alcuni direttori di teatri. Ovviamente non parlo dei molti teatri, quelli in cui sono stato, che invece hanno avuto coraggio e mostrato amore per il mio lavoro e quello della mia compagnia. Questo discorso non è riferito a loro.

Alcuni mi hanno detto che lo spettacolo parla di pedofilia e quindi non adatto al loro pubblico. Questa è una cosa che fa male. Perché si pensa che il nostro pubblico (italiano – di provincia – medio) voglia solo intrattenersi e non desideri anche analizzare o mettersi in discussione? Lo immaginavo, ai tempi in cui lo mettevo in scena, e nonostante tutto sono stato fedele all’idea che avevo. Ma non vorrei parlare di questo, in relazione al mio spettacolo, altrimenti potrei risultare presuntuoso; sono partito dalla mia esperienza, e qui la lascio, per continuare col mio pensiero: se chi ha la possibilità di scegliere gli spettacoli, ha paura di puntare sulle nuove generazioni, se non c’è amore per questo lavoro, se si guardano solo i conti, se si pensa alla vecchia maniera che il teatro è l’abbonato che compra il titolo, se non si fanno incontri con il pubblico per far conoscere le giovani realtà, se non si cura lo spettatore come se fosse un alberello nel deserto, se non si dà spazio ai giovani che hanno idee (quante sale vuote, pronte per essere utilizzate ci sono? Ne conosco tantissime, tantissimi teatri importanti hanno sale prove libere, vuote di persone e di idee e di progettazione e di gioia e di teatro lì non ce né) se chi gestisce i teatri non consente che ciò accada, tutti i giovani artisti presenteranno delle idee a metà, si adegueranno a fare gli spettacoli che sono un concetto analizzato in venti minuti, presentato a mo’ di concorso per rientrare nei canoni modaioli della sperimentazione o per vincere qualcosa e non avranno mai il desiderio di crescere. Che per me significa: libertà di poter girare nudo, al buio, in mezzo a lame taglienti, tra burroni senza fondo;  se riesci a farlo restando vivo, se riesci a non morire, avrai capito che significa vivere!

In tempi in cui non c’è lavoro e non ci sono più soldi, tutto è più difficile e per chi era riuscito a lavorare solo perché aveva i soldi e non le idee, oggi c’è desolazione e si arranca a gestire realtà vuote di tutto. Se oggi chi ha le idee sono i giovani della mia età e più giovani di me, dico a noi stessi che dobbiamo avere coraggio, più coraggio, non dobbiamo pensare che il sistema ci limita o il sistema ci obbliga. Siamo noi che formiamo il sistema e che gli diamo valore o riconoscibilità.  Non dobbiamo avere paura di uscire dal coro. Goethe diceva: “C’è una verità elementare, la cui ignoranza uccide innumerevoli idee e splendidi piani: nel momento in cui uno si impegna a fondo, anche la provvidenza allora si muove. Infinite cose accadono per aiutarlo, cose che altrimenti mai sarebbero avvenute… Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di poter fare, incominciala. L’audacia ha in sè genio, potere, magia. Incomincia adesso”.

Ho assistito a spettacoli dei gruppi di cui parla il signor Palazzi, e anche ad altri, e se anche non ho potuto vedere la loro crescita perché vi ho assistito quest’anno per la prima volta, sono sicuro, da ciò che potuto vedere, che una voglia estrema di portare un mondo vivo, antico e moderno allo stesso tempo, un mondo che parla la nostra lingua e i nostri dolori e le nostre gioie, c’è! C’è come c’era cent’anni fa. I miei nonni, in Sicilia, facevano quello che si fa oggi nei teatri: raccontavano storie, alcune assurde altre divertenti altre brutte, si raccontava e si faceva teatro in casa, dove tutti erano la storia stessa. Lo facevano ovunque i nostri nonni napoletani, veneti, lombardi… Questo sarebbe bello riportare in vita, queste concetto di comunità che il moderno comunicare ci ha fatto dimenticare.

Non dico che dobbiamo fare teatro di tradizione, ma che della tradizione dobbiamo tenerne conto, sì, è doveroso, è una risorsa, sia che la si distrugga, sia che la si utilizzi come modello, dobbiamo essere presenti al nostro vissuto, perché perduto è chi non contempla le sue radici, costui sarà solo uno che cavalca una moda e si sa che le mode sono cavalle selvagge che ti fanno fare salti pazzeschi che ti fanno sentire Dio quando saltano, ma ti rompono la schiena quando si buttano a terra per  rotolarsi tra la sabbia.

Scusate se il mio modo di scrivere è un po’ elementare, non ne ho una grande padronanza, quando penso le cose sono più facili da capire rispetto a quando le devo scrivere, però se dovessi sintetizzare al massimo, dico che tutto ha senso e c’è crescita solo se c’è amore. È un concetto banalissimo, ma mi hanno insegnato che è questa la “cosa” più prossima al segreto di vivere vicino alla felicità e alla bellezza.

Un ultimo passaggio dell’articolo che mi ha fatto pensare è: misurarsi, prima o poi, con un classico. Ne avrei paura… Sarei indeciso se portare il mio mondo a quel testo o adattare il testo al mio mondo. Sarei in grande difficoltà, certo mi direi: se questo testo funziona da 2000, da 400 o da 500 anni, una ragione ci sarà; come potrei fare, io, meglio di Cechov o di Shakespeare o meglio di Euripide? Non so come farei, magari risponderò fra qualche anno, adesso sono troppo piccolo, devo crescere!

Tindaro Granata

Leggi gli interventi precedenti di:
Renato Palazzi
Roberto Scappin (Quotiodiana.com)
Babilonia Teatri
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