Un lunare David Hallberg illumina il Lago di Nureyev

Alla Scala la ripresa del Lago dei Cigni di Rudolf Nureyev mette in evidenza ombre e luci di una versione controversa. Tra i punti più alti la presenza di Svetlana Zakharova e  David Hallberg, l’americano del Bolshoi al suo debutto scaligero Silvia Poletti

Si può parlare male di Garibaldi? Beh bisogna, anche se il ‘Garibaldi’ in questione si chiama Rudolf Nureyev. Perché, alla fine, bisognerà dire una volta per tutte che – al di là del suo immenso valore artistico e la personalità carismatica – contrariamente a quanti si ostinano a sostenerlo, Nureyev non è un coreografo e gran parte delle sue versioni dei grandi titoli del repertorio accademico russo (che ebbe comunque il merito di far conoscere in Occidente) sono inutilmente farraginose e disorganiche. Vero è che Nureyev ebbe il merito di rinfrescare le chiavi drammaturgiche di molti plot con intuizioni intelligenti, spesso con rimandi freudiani (come in Schiaccianoci, forse la sua produzione più convincente), ma nella ‘traduzione’ in passi, legati, puro linguaggio di movimento, i tic e i vezzi del suo personalissimo stile – frenetico, sincopato, anticlassico – rischiano di soverchiare i limiti del buon senso e (talvolta) del  caro antico concetto di armonioso sviluppo dinamico, di fondamentale scuola. Ciò nonostante varie compagnie europee si fanno pregio di avere in repertorio i balletti accademici nella versione Nureyev: insieme all’Opéra di Parigi è la Scala ad avere il maggior numero di titoli (come attesta anche il bel volume Nureyev alla Scala pubblicato dal Teatro nel 2002), in continua riproposizione nel corso delle stagioni.

È il caso del Lago dei Cigni, che dal 1990 è andato in scena, con le ultime repliche, per ben sette stagioni, in un allestimento scenico bello e poetico, comme il faut (degli Oscar Frigerio e Squarciapino). E proprio questo Lago, che Nureyev rilesse dopo l’edizione 1964 per la Staastoper di Vienna (immortalata in un celebre video con Fonteyn e oggi ripreso dal corpo di ballo austriaco), sembra una delle versioni più incongruenti e affastellate dell’intero corpus nureyeviano.

Vero è che fin dall’origine il balletto ha vissuto di due anime, per le diverse personalità e poetiche dei due autori che, come noto, si divisero i compiti – il vecchio Marius Petipa il primo e terzo atto, il suo braccio destro Lev Ivanov i mirabili atti ‘bianchi’ – ma soprattutto ha patito l’usura di una forma spettacolare come quella dell’ormai morente ballet a grand spectacle, fitto di ‘numeri’ chiusi e scene pantomimiche, così che anche la vulgata arrivata fino a noi ha sofferto nell’assetto drammaturgico e coreografico: ci sono stati tagli, spostamenti, inserimenti di personaggi funzionali al nascente virtuosismo – come l’insopportabile giullare – ma la drammaturgia e l’assetto compositivo ne hanno sempre un po’ sofferto.

Nel caso della versione Nureyev, pure incentrata sulla romantica malinconia di un principe infelicemente consapevole dell’impossibilità del sogno eppure irresistibilmente attratto dalla sua conquista, il filo si sfalda però già nel primo atto, dove danze di corte complicatissime si ingarbugliano nello spazio, e per delineare l’umore del protagonista si giustappongono  qua e là interventi nel consueto bizzarro neoclassicismo ‘nureyeviano’ (con una serrata sequenza di equilibri con svelti cambi di assetto o isterici rond de jambe saettanti nello spazio), per poi, ohibò, recuperare la più antica e desueta pantomima ottocentesca in molti momenti, in un ibrido stilistico che confonde.

Né risulta così chiaro l’ambiguo legame del principe con il suo istitutore, che diventerà poi il mago Rothbart nel secondo atto, destinato a rivelare la crudezza della vita con la messa in atto dell’inganno fatale perpetrato dal Cigno Nero Odile. Per non parlare del difficile terzo atto, che prima del celebre pas de deux del Cigno Nero innalza l’insormontabile ostacolo delle danze di carattere, forche caudine per quei danzatori che non abbiano praticato il genere fin dalla più tenera età e anche per il pubblico che, se non eseguite alla perfezione, le considera tediose.

Per fortuna tutto svapora all’apparire degli atti bianchi: quelli dei cigni dolenti, della sublime Odette che freme per la libertà che sa bene non potrà mai raggiungere. Qui infatti Nureyev lascia quasi tutto il campo libero all’originale di Lev Ivanov e alle sublimi mollezze dei cigni, alle loro linee morbide e fragili, al palpitante ondeggiare dei corpi.

È qui del resto che ‘il gioco’ si fa duro, che si mette in evidenza l’omogeneità stilistica del corpo di ballo, la sensibilità, le linee, la cura del dettaglio. E ancora una volta il Corpo di Ballo della Scala si dimostra, in questo frangente soprattutto, all’altezza del compito, anche se altrove – ohimé – risente anch’esso dell’atroce legge della stabilità italiana, che costringe a mandare in scena anche artisti evidentemente a fine percorso oltre che fuori forma, i quali stridono e risaltano agli occhi, seppure disseminati sapientemente nelle danze di massa. Il balletto classico del resto è impietoso, e certe cose emergono malamente ora più che mai che gli standard fisici – oltre che atletici e tecnici – hanno raggiunto livelli altissimi. Lo dimostra la coppia regina della serata, incarnata dalla russa Svetlana Zakharova e dall’americano David Hallberg.

Lei è qui nel ruolo che meglio si confà alle sue linee sublimi e al lirismo del suo movimento, cui non ha bisogno di aggiungere altro. David Hallberg, al suo debutto alla Scala, conferma l’opinione di essere uno tra i migliori ballerini classici in circolazione oggi. Étoile all’American Ballet Theatre e al Teatro Bolshoi di Mosca, questo biondissimo ballerino dalle linee lunghe, naturalmente eleganti, la musicalità del legato, leggerezza del salto e il ricamo dei piedi, è un purista dal lirismo innato. Con Zkaharova, sua partner al Bolshoi, forma una coppia perfettamente amalgamata per mood, linee e intonazione. In più, fin da subito riesce a dare un’allure malinconica alla sua presenza in scena, senza eccessi manieristici, che rende pertinente l’interpretazione, nonostante gli irti schemi coreografici immaginati da Nureyev. Ciò nonostante la lunare qualità della danza di Hallberg non inganni: dietro al pallore argenteo, vibrano ombre ed emozioni più forti e intense, che sarebbe bello potesse lui stesso ben presto esplorare in altri e ben più complessi ruoli: uno per tutti? Restando in tema di Lago, Ludwig in Illusions like Swan Lake di Neumeier, per esempio.

Acclamato con dieci minuti di applausi alla prima, il Lago dei Cigni continua le sue repliche scaligere con varie distribuzioni: oltre alla coppia Zakharova-Hallberg,  ancora una guestPolina Semionova, e molti cast interni con talenti che Vaziev giustamente sta lanciando: è il caso di Nicoletta Manni, neo prima ballerina, e Virna Toppi, che anche alla serata inaugurale hanno brillato in vari ruoli, insieme al Rothbart maturo e intrigante di Mick Zeni.

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Visto al  Teatro alla Scala  di Milano il 15 aprile 2014. Repliche il 19, 24, 27, 29 aprile; 6, 8, 9, 10, 11 maggio

Il Lago dei Cigni
coreografia:  Rudolf Nureyev da Marius Petipa e Lev Ivanov
musica: Piotr Ilich Ciaikovsky
regia :Rudolf Nureyev
scene: Ezio Frigerio
costumi: Franca Squarciapino
Svetlana Zakharova, David Hallberg
Corpo di Ballo del Teatro alla Scala
Orchestra del Teatro alla Scala diretta da Paul Connelly