Luca Ronconi è stato il più grande regista della sua generazione e uno dei più grandi al mondo. Spazio, tempo, movimento delle scene è stata la triade fondamentale del suo teatro. Che non lascia eredi – Maria Grazia Gregori
Se ne è andato Luca Ronconi, il più grande regista della sua generazione e uno dei più grandi al mondo e improvvisamente ci si rende conto che niente sarà più come prima, che con lui si è perso un baluardo della cultura e del teatro. Perché lui, che non amava essere chiamato maestro, invece lo è stato davvero per tantissimi attori ma anche, soprattutto, per un modo etico, totale, amoroso di porsi nei confronti della scena, era proprio questo, un baluardo: contro la volgarità, un certo consumismo culturale, un certo finto perbenismo.
Il presidente del Consiglio Renzi lo ha definito un “visionario” e, sì, lo era davvero. Le sue visioni, però, non andavano per conto loro ma avevano i piedi ben piantati per terra. Visionario Ronconi lo è stato nel non accettare mai il limite, nel volere andare oltre, per cercare strade nuove, nel linguaggio, nell’interpretazione, nello spazio, nel testo. Per tutto questo il teatro è stato per lui non solo un grande amore, ma il più grande amore della sua vita, qualcosa di totalizzante, di fisico addirittura di cui proprio non poteva fare a meno. Se ce ne fosse stato bisogno la cosa è apparsa chiara dopo la sua grave, invalidante malattia che lo teneva legato alla dialisi. Lui che era così schivo, così riservato, così autoironico ha saputo dare a chi gli voleva bene e lo stimava un vero e proprio esempio di forza, ancora una volta non accettando il limite, la costrizione di un corpo che talvolta non riusciva più a seguirlo ma che lui quasi scavalcava, metteva fra parentesi: un atto di coraggio che, certo, lo poteva logorare. Ma in quella che chiamava la sua seconda vita era importante per lui lasciare un segno. Ne ha lasciati tanti di segni, di testimonianze nel mondo.
Sul palcoscenico del Piccolo Teatro di via Rovello, il giorno della prima di Lehman Trilogy che oggi siamo portati a guardare come il suo testamento, era apparso in mezzo agli attori pallido, stanco certo, ma così felice per gli applausi e per il successo dello spettacolo come raramente l’abbiamo visto. Del resto quest’uomo nato a Tunisi, ma romano di formazione, che un giorno del 1998 era arrivato insieme a Sergio Escobar a raccogliere l’eredità di Strehler, aveva saputo a poco a poco con il suo teatro fatto di ragione e sentimento, di innovazione e di un rispetto mai supino nei confronti della tradizione che voleva innovare, conquistare il cuore di Milano “la fredda”. Ce ne siamo resi conto quando il giorno del suo ottantesimo compleanno l’8 marzo di due anni fa, il sindaco di Milano, Pisapia, gli ha conferito la cittadinanza onoraria.
Ma prima del Piccolo, di cui è stato direttore artistico e poi consulente, aveva diretto lo stabile di Torino e quello di Roma per poi approdare a quello che in fin dei conti era il suo punto di arrivo più giusto: la ribalta più internazionale della nostra scena. Del resto lui che aveva iniziato all’Accademia d’arte drammatica il suo percorso come attore e che seguiva per passione le lezioni di regia di quello che ha sempre considerato il suo maestro – Orazio Costa – e che poi era diventato regista quasi per caso e subito si era imposto, fra successi e anche insuccessi, per quello sguardo lungo sulle cose, per quella sua capacità veramente imbattibile, geniale, di rivoltare un testo come un calzino, senza mai tradirlo anzi esaltandolo, veniva da una “scuola” del tutto particolare: le letture dei testi teatrali della biblioteca di sua madre che fin da ragazzino lo portava a teatro, e quelle recite domestiche che avevano per arcoscenico l’arco del salotto di casa o qualche giardino nelle vacanze estive dove rappresentare con una tribù di amici e di cugini, i testi classici.
Certo è stato un rivoluzionario capace di mettere in piedi l’unica utopia teatrale nata nel teatro italiano degli anni Settanta, il Laboratorio di Prato, preso a modello e punto di riferimento dal teatro di mezzo mondo, ma che in Italia venne avversato anche in maniera molto forte a ribadirci ancora una volta che nessuno è mai profeta in patria. Ma Luca un profeta non ha mai voluto esserlo, non si sentiva un Mosè che guidava la scena italiana aldilà del Mar Rosso. Lui, invece, più “semplicemente” voleva andare oltre lo stanco ron ron di un teatro che gli sembrava mordersi la coda, voleva – questo sì – reinventare un nuovo alfabeto che gli permettesse di scrivere una storia che fosse tutta sua.
In un ipotetico alfabeto ronconiano la prima parola è testo: tutto è nel testo. Sopra, sotto, dentro il testo che sia un testo teatrale o un romanzo o come in quest’ultima Lehman Trilogy di Stefano Massini, un testo epico. La seconda voce è spazio: per tutta la sua vita Ronconi ha combattuto contro lo spazio tradizionale, scendendo dal palcoscenico, scegliendo luoghi alternativi in grado di aprire drammaturgicamente lo svolgersi del tempo dello spettacolo. Spazio, tempo, movimento delle scene sono la triade fondamentale del suo teatro perché dove lo spazio non permetteva nessuna fuga doveva comunque essere in movimento, andare su e giù, vicino e lontano verso il sogno di uno spettacolo infinito, un fluire continuo di oggetti, di personaggi di un’umanità in movimento. In questo vocabolario ronconiano un ruolo fondamentale lo occupa l’interpretazione: un lavoro straordinario che partiva dal testo e coinvolgeva l’attore in un vero e proprio corpo a corpo affascinante, come ha dimostrato il lavoro nelle Scuole che ha diretto e in quella vera e propria fucina di idee e di innovazione che è stata Santacristina dove agli attori poteva sembrare talvolta di muoversi senza rete. L’ultima, ma forse dovrei dire la prima delle voci, è lui, Luca, la sua genialità, l’ironia, la sua sensibilità, il suo senso dell’amicizia, il suo coraggio.
Tutto questo ha portato all’invenzione di una serie di spettacoli memorabili che più che spettacoli erano sempre sfide per la complessità, per la durata, per la genialità, titoli che a partire dall’indimenticabile Orlando furioso fino ad arrivare a Lehman Trilogydi oggi (ma dovrei ricordare almeno l’Orestea, tutti gli spettacoli del Laboratorio di Prato, Ignorabimus, Gli Ultimi giorni dell’Umanità al Lingotto di Torino, Strano interludio, Il Pasticciaccio gaddaiano, Lolita, Infinities, quelli pensati per l’Olimpiade della cultura di Torino, Il panico di Spregelburd, spettacoli che alla memoria sembrano ancora vivi, qui, davanti a noi. Senza tralasciare alcune mitiche regie d’opera che magari scandalizzarono i puristi ma ancora oggi punti di riferimento come Viaggio a Reims e i Wagner per il Maggio fiorentino.
Guardando dentro quella vera e propria lanterna magica che è stata la vita di Luca nel teatro del mondo, mi rendo conto che anche la mia vita, a partire dai lontani Sessanta quando preparavo la mia tesi in estetica dove c’era un capitolo a lui dedicato, è andata di pari passo con il suo teatro, insieme all’amicizia, all’affetto. So che persone come lui sono insostituibili, troppo forte è la traccia che ci hanno lasciato per poterle non dico cancellare ma neppure dimenticare. Oggi il teatro, quel grande teatro del mondo che perseguivi accanto a un teatro più segreto, nascosto, è più vuoto senza te, amatissimo Luca.