Valter Malosti ha riunito due fra i più celebri testi teatrali dello scrittore di Novate. Benché presentato sotto forma di saggio con i giovani attori dello Stabile di Torino, lo spettacolo meriterebbe di proseguire il suo cammino – Renato Palazzi
Valter Malosti ha mostrato più volte di avere una particolare sensibilità per il mondo di Testori. Sotto il titolo comune I segreti di Milano – che in origine era quello del grande ciclo narrativo in cui rientravano anche i racconti del Ponte della Ghisolfa e della Gilda del Mac Mahon, oltre al romanzo Il fabbricone – Malosti ha raccolto ora i primi due testi teatrali dello scrittore di Novate, L’Arialda e La Maria Brasca, presentati alle Fonderie Limone di Moncalieri con gli allievi dell’ultimo anno della scuola dello Stabile di Torino: e nonostante il lavoro nasca come saggio finale di un corso, nonostante l’inevitabile acerbità – fisica, prima ancora che interpretativa – dei giovani attori, il regista ha creato una messinscena davvero esemplare, una limpida dimostrazione di come si possono oggi affrontare le opere testoriane.
Lo spettacolo, prodotto dallo Stabile, rientra in un progetto complessivo che Torino dedica al Neorealismo, Lo splendore del vero nell’Italia del dopoguerra, cogliendo il fenomeno in tutte le sue varie articolazioni, nel cinema, nel teatro, nella letteratura, nella musica, nella fotografia. Ma Malosti, paradossalmente, sembra andare nella direzione opposta, partendo dalla sostanza realistica che pure innerva questi testi e sospingendoli verso quella dimensione di tensione interiore, per certi aspetti prossima a risonanze da tragedia classica, da cui d’altronde è pervasa tanta parte delle pagine dell’autore dell’Ambleto e del Macbetto.
Due sono le linee principali lungo le quali si è mosso il regista: la prima è la scelta di rinunciare a qualunque sovrastruttura scenografica, proiettando l’azione in un grande spazio totalmente spoglio, dove i personaggi si stagliano con una spietata nitidezza. Di tanto in tanto, all’occorrenza, entrano due o tre oggetti emblematici, un tavolo, un paio di sedie, una porta che sembra condurre verso il nulla, ovvero verso quello stesso vuoto da cui proviene chi la varca. Ma per lo più queste figure tormentate sono sole di fronte a se stesse, spogliate di ogni tratto quotidiano, precipitate in una sorta di arena mentale in cui le loro passioni primarie si rivelano con un’evidenza abbacinante. Anche l’abbigliamento, pur richiamando quei primi anni Sessanta, sembra complessivamente privo di specifiche connotazioni temporali, in qualche modo fuori dalla storia.
In quel nulla senza appigli sono i puri rapporti di forza tra loro a spiccare con violenza inaudita. Depurata di ogni residuo naturalistico, questa umanità relegata ai margini della città mostra come in vitro il nucleo primordiale dei suoi comportamenti, che si riducono a una feroce lotta per la vita. Lottano per la vita l’Arialda e la Gaetana, la «negra», la meridionale, che si contendono lo stesso maschio, il Candidezza, il bottegaio concupito per i soldi, sì, ma anche per quel tanto di sicurezza che può dare la presenza di un uomo, seppure incapace di veri affetti. Lotta per la vita l’Eros, il fratello omosessuale dell’Arialda, discriminato, osteggiato da tutti, aggrappato solo a quell’amore per il Lino, il ragazzo che incarna la sua aspirazione alla purezza.
Ma lottano per la vita, benché in modo meno scoperto, anche i più giovani e specialmente le più esposte, le ragazze, la Mina così pazzamente innamorata dell’Eros che per lui farebbe e fa qualunque cosa, la Rosangela, la figlia della Gaetana, che nonostante tutto non vuole mollare, non vuole rinunciare a stare col Gino, il figlio del Candidezza, un bullo di quartiere a sua volta e a suo modo ferito dentro. E lotta per la vita la Maria Brasca, la protagonista dell’altro testo di cui Malosti ha inserito diverse scene nel copione, l’ideale “doppio” dell’Arialda e della Gaetana, che sembra forte e determinata, ma per tenersi quel suo Romeo Camisasca che spavaldamente corre dietro a tutte le sottane è disposta a qualunque compromesso.
Quello evocato da Testori, e lucidamente inscenato da Malosti, non è il bozzetto più o meno sociologico di una periferia urbana agitata dai presagi del boom economico in arrivo. È un lancinante dramma dei sentimenti che non lascia spazio alla solidarietà o alla compassione, un crescendo di disperazione che passa attraverso vendette e tradimenti – l’Arialda, per far fuori la rivale, non esita a ordire un ignobile complotto incentrato sulla Nina, mandata a sedurre il Candidezza – e culmina in una doppia fine, quella del Lino, che si schianta con la moto regalatagli proprio dall’Eros, e quella della Gaetana, che si suicida dopo avere invano cercato un barlume di pietà dall’Arialda. Da quelle periferie non si esce, non c’è riscatto, nessuno si salverà dalla propria condizione.
L’altra linea – molto interessante – su cui Malosti si è mosso è invece quella del rapporto coi morti e con la morte. Tutta la trama dell’Arialda è, a ben vedere, una storia di vedove e vedovi, di oscuri legami col passato. Il Candidezza ha perso la moglie, la Vittoria, l’Arialda ha perso un fidanzato corroso dalla tisi, quello che lei chiama il Marcione, ed entrambe queste ombre pesano sui rapporti tra i vivi. Così Malosti fa apparire di continuo i due fantasmi, la donna velata di nero che si aggira inquieta per la casa e l’uomo seminudo, sghembo che spia, interviene, tenta ancora di accoppiarsi. «E adesso venite giù, o morti!» è l’ultima battuta dell’Arialda: e i morti vengono davvero, la Vittoria, il Marcione e la Gaetana, raccolti attorno al cadavere del Lino in un sinistro consesso che dà alla vicenda un’impronta sottilmente metafisica.
Non so, al momento, cosa ne sarà di questa produzione, se verrà ripresa con gli stessi attori, se verrà riproposta con una compagnia più matura, o se finirà qui il suo percorso. C’è da augurarsi che venga mostrata ancora, perché rivela un bell’approccio a un autore del quale c’è ancora tanto da scoprire. E i ragazzi, per quanto alle prime armi, ci mettono grande intensità. Parlare dei singoli, in questi casi, è sempre fuori luogo, ma nella versione cui ho assistito – alcuni ruoli vanno a rotazione – non posso non citare almeno la veemente Arialda dall’ira quasi biblica di Beatrice Vecchione, l’Eros molto misurato di Marcello Spinetta, l’Amilcare Candidezza debitamente viscido e tronfio di Vittorio Camarota.
Visto alle Fonderie Limone di Moncalieri
L’Arialda e La Maria Brasca
dal ciclo di Giovanni Testori
con Matteo Baiardi, Liliana Benini, Vittorio Camarota, Elena Cascino, Giulio Cavallini, Marta Cortellazzo Wiel, Gloria Cuminetti, Christian Di Filippo, Barbara Mattavelli, Camilla Nigro, Arianna Primavera, Luigi Pusceddu, Gloria Restuccia, Marcello Nicolò Spinetta, Beatrice Vecchione, Isacco Venturini, Matilde Vigna
regia Valter Malosti
cura del movimento Alessio Maria Romano
musiche originali Bruno De Franceschi