In cui prosegue il dibattito sul “tifo” da teatro, si pongono domande “scomode” a un festival di gran livello e ci si interroga su pro e contro dell’attuale esplosione di offerta spettacolare – Renato Palazzi
Diego Maj, direttore del Teatro Gioco Vita di Piacenza, si dissocia dal mio Post sul Mario Perrotta Fan Club e sull’atteggiamento degli stessi Maj e Perrotta, che ne hanno preso le distanze. Torno sull’argomento, sperando di chiudere qui la questione. «Credo che tu abbia un po’ troppo enfatizzato una giovanile e goliardica iniziativa», mi scrive Maj. Ma la giovanile e goliardica iniziativa ha portato nel cortile di Palazzo Farnese, dove l’attore presentava il suo Milite ignoto, una sessantina di persone che l’avevano conosciuto da vicino in occasione di una performance in casa di amici. È questo, a mio avviso, l’aspetto innovativo. Fra loro non c’erano solo ragazzi, ma professionisti, insegnanti, sportivi. Quei sessanta, incoraggiati, sarebbero diventati il doppio, il triplo… Credo che nessun teatro possa permettersi di rinunciare a questo pubblico meno avvezzo a frequentare le platee, che certe espressioni della scena contemporanea le va scoprendo solo ora. Maj rivendica di essere un uomo del ‘900, diffidente dei nuovi tipi di partecipazione. Maria Grazia Gregori mi ricorda che un grande del ‘900, sir Laurence Olivier, aveva i fan che intervenivano al suo Amleto portando striscioni con la scritta «we love Larry».
“Vie” di Modena è un bel festival che da undici anni esplora il meglio del teatro internazionale. Ha un bel programma, ma un progetto organizzativo disastroso. Per esigenze territoriali Emilia Romagna Teatro, che lo promuove, e che estende la sua attività in tutta l’area, deve coinvolgere varie sedi distaccate, che quest’anno, oltre a quelle modenesi, sono l’Arena del Sole, il Teatro San Leonardo, il Teatro Manzoni, il Teatro delle Moline e i Teatri di Vita di Bologna, il Teatro Ermanno Fabbri di Carpi, il Palazzo dei Pio di Carpi. Una mappa intricatissima, in cui è difficile orientarsi, figuriamoci spostarsi. E anche dove parrebbe possibile coordinare proposte diverse, si fa di tutto per negare questa opportunità: che senso ha programmare nelle stesse sere due spettacoli, La prima, la migliore di Berardi / Casolari e il Faust di Anna Peschke, in due sale dell’Arena del Sole, uno alle 20, 30 e uno alle 21, quando sarebbe bastato anticipare il primo per consentire di vederli entrambi? I festival si fanno, sì, per mostrare le singole proposte al pubblico locale, ma anche per offrire una più ampia panoramica agli addetti ai lavori, che arrivano da ogni parte. Soprattutto tenendo conto che l’ERT è diventato Teatro Nazionale.
I dati S.I.A.E. del primo semestre del 2015 confermano ciò di cui ci eravamo già accorti da tempo: che, cioè, l’offerta di spettacoli sta aumentando a dismisura, più in fretta di quanto il pubblico sia in grado di seguirla. Basti pensare al “caso” Milano, dove tre soli teatri, il Piccolo, l’Elfo Puccini e il Franco Parenti, dispongono di ben undici sale complessive, e le programmano simultaneamente, con inevitabili accavallamenti. Ci sono settimane in cui, anche volendo, non si riesce a star dietro a tutti i debutti. Questo fiorire di occasioni è segno di vitalità, di una stimolante molteplicità di esperienze e di linguaggi, di un necessario ricambio generazionale, ma finisce per innescare una competizione spietata, in cui chi è meno attrezzato rischia di soccombere. Il teatro, da sempre, non è soggetto a dinamiche concorrenziali: se ne va bene uno, si dice, vanno bene tutti gli altri. In questo caso, però, stanno davvero cambiando le modalità del consumo, ed è urgente dotarsi di nuove strategie per diversificare e valorizzare le identità dei singoli organismi e dei percorsi creativi che propongono.