Ciò che più mi ha colpito nello spettacolo di Kronoteatro è l’insolito modo di accostarsi alle dinamiche generazionali che sono nel Dna del gruppo di Albenga. “Cannibali” toglie allo spettatore più di quanto non gli dia. Cosa gli toglie? L’appagante pienezza della “pietas” – Renato Palazzi
Sono riuscito a vedere Cannibali, lo spettacolo di Kronoteatro, dopo una lunga serie di appuntamenti mancati: ogni volta non era tempo, non era luogo, non era l’occasione. È uno spettacolo breve, essenziale sulle devastanti dinamiche generazionali, come tutti gli spettacoli del gruppo di Albenga, d’altronde, che la spinta ad affrontare questo tema ce l’ha impressa nelle sue stesse origini, nel fatto di essere nato sui banchi di scuola, dall’incontro fra alcuni studenti e il loro insegnante di teatro, che poi hanno continuato a lavorare insieme. Ma in Cannibali c’è qualcosa di più duro ed estremo, c’è come una rinuncia a ogni abbellimento formale per andare dritto al nucleo livido e spietato della questione.
La caratteristica più evidente di questo spettacolo sta nella scelta di ridurre – non senza crudeltà – delle storie umane complesse e dolorose, dei sentimenti intimamente vissuti e sofferti a un arido schema lucidamente dimostrativo. La messinscena è fatta di nulla, praticamente inesistente, due interpreti di età diverse, due vecchie poltrone che vengono spostate qua e là per la ribalta trasformandosi di volta in volta in strumenti di combattimento o in arredi di una casa o di un ufficio, un casco da eroe dei fumetti e una spada laser, che praticamente non verranno mai usati.
All’inizio i due attori, Maurizio Sguotti e Tommaso Bianco, procedono a un’accurata vestizione indossando con gesti quasi rituali delle felpe e delle ginocchiere come per prepararsi a un incontro di lotta o di arti marziali, sotto lo sguardo impassibile di un terzo, Alex Nesti, che fa da addetto alle tecnologie e da ideale arbitro. E in effetti la costruzione drammaturgica (di Fiammetta Carena) è scandita da una serie di brevi round che si susseguono e si incastrano l’uno nell’altro, introdotti e commentati da incongrui messaggi pubblicitari che richiamano il sottofondo di una società senza valori, l’unico orpello rappresentativo, in verità un po’ scontato e a mio avviso non del tutto necessario.
Parlare, qui, di conflitti generazionali in realtà è abbastanza improprio, perché i conflitti implicano comunque un substrato di passioni, di rancori, di rivendicazioni, mentre Cannibali si limita a mostrare dei meri rapporti di forza tra giovani e vecchi, a tracciare un gelido diagramma di queste relazioni di potere. I due personaggi evocati, che di fatto non sono neppure personaggi ma pure presenze sceniche, non hanno altro ruolo se non quello di illustrare un feroce spostamento di equilibri naturali, senza interrogarsi su di esso, senza trarne particolari significati.
La prima parte – ammesso che vi sia una qualche divisione in parti, dato che l’azione si dipana in un flusso ininterrotto – è focalizzata sulle varie tipologie di sopraffazione degli anziani nei confronti di chi, per ragioni anagrafiche, è in una posizione sottomessa, un padre che se la prende col figlio, un insegnante che tormenta un allievo, un possibile datore di lavoro che umilia chi aspira a essere assunto. Poi, senza quasi uno iato, i rapporti si invertono, l’uomo – forse, idealmente, lo stesso che prima infieriva e ora subisce – invecchia e resta alla mercé di chi sta prendendo il suo posto nella vita, un figlio che tratta il padre con fastidio, un datore di lavoro che brutalmente lo accantona, un medico che senza delicatezza gli diagnostica il cancro, e l’infermiere a cui chiede disperato di «spegnere la macchina».
Il finale lascia un segno di vaga speranza: le due generazioni possono forse trovare un punto di contatto scambiandosi qualcosa che le unisca, in questo caso i bei paesaggi della Sila, che il più anziano ricorda con piacere e il più giovane comincia ad apprezzare, o finge di apprezzare per compiacere l’altro. Se si tratti di uno sforzo di comprensione reciproca, o del fatto che l’uno matura quando l’altro non è ancora fuori causa, in un processo di riavvicinamento fisiologico, non occorre specificarlo: resta la sensazione che quella fragile tregua sia comunque destinata a esaurirsi in pochi istanti, scavalcata da nuovi giovani e nuovi anziani che cercheranno di soverchiars a vicenda.
Ho trovato lo spettacolo, nel suo andamento spoglio, quasi scarnificato, un po’ esile ma interessante soprattutto per quella sorta di distacco oggettivo che lo ispira, per quella freddezza radiografica che i due bravi attori sottolineano con un’interpretazione che sembra citare semplicemente i comportamenti delle due figure, senza identificarsi e senza giudicarli. Ciò che più mi ha colpito, di questo modo di accostarsi al problema, è che insolitamente toglie allo spettatore più di quanto non gli dia. Cosa gli toglie? Gli toglie appigli, rassicurazioni, difese emotive. Gli toglie l’appagante pienezza della pietas. Espone la sua tesi come un teorema esistenziale, lasciandosi dietro unicamente una scia di vago strazio.
Visto al Pim Off di Milano. Nella foto, Maurizio Sguotti (a sin.) e Tommaso Bianco in scena.
Cannibali
di Fiammetta Carena
con: Tommaso Bianco, Alex Nesti, Maurizio Sguotti
costumi: Francesca Marsella
luci: Amerigo Anfossi
video animazione: Fabio Ramiro Rossin
musiche: MaNu Dj