Tre spettacoli meritano assolutamente di non essere dimenticati nella prima parte del festival che si svolge a Bologna, Modena e in altre località emiliano-romagnole: si tratta di “A Bergman Affair” di The Wild Donkeys; “Imitation of life” di Kornél Mundruczô e di “El bramido de Dusseldörf” di Sergio Blanco – Maria Grazia Gregori
Quello del Festival Vie che coinvolge le città di Bologna e Modena, ma anche altre realtà del territorio è un appuntamento al quale non si può mancare. Anche quest’anno il programma, estremamente variegato, ha attirato un pubblico numerosissimo, messo a confronto con diversi linguaggi, diversi modi di fare, guardare, vivere il teatro. C’è il teatro che impietosamente mette al centro la coppia di ispirazione bergmaniana, c’è il teatro durissimo, di denuncia, nato in Ungheria ma già conosciuto non solo in Europa, c’è il teatro sudamericano anzi uruguaiano che con apparenza ironica, addirittura divertente talvolta, ci racconta della difficoltà di andare alla ricerca delle proprie radici, in questo caso quelle ebraiche, della morte di un padre e dello spaesamento di un figlio. Spettacolo, quest’ultimo che ha rivelato un nuovo drammaturgo di grande forza espressiva come Sergio Blanco.
A Bergman Affair, titolo che più bergmaniano non si può, è tratto dal romanzo del grande regista svedese “Conversazioni private” dove, come sempre, egli mette a confronto senza pietà, senza possibilità di riscatto uomini e donne, comunque coppie, che si distruggono anzi si autodistruggono alla ricerca di una possibile, in realtà impossibile, felicità, analizzando il loro rapporto, quasi scorticando i sentimenti su cui si regge, condannandoli alla sconfitta, alla loro morte. Questo spettacolo, che nasce da un progetto del gruppo The wild donkeys firmato da Olivia Corsini e Serge Nicolaï con la regia di quest’ultimo mette in scena l’impossibile ricerca di una donna sposata con figli di trovare una propria felicità, impossibile – si direbbe – visto che dipende dagli altri: il marito, l’amante, il pastore, uomini che, in realtà, in momenti diversi, hanno cercato di possedere questa donna senza darle quello che cerca. Una specie di balletto tragico dove i personaggi, nei momenti chiave della storia, vengono mossi (come succede nel teatro giapponese del Bunraku) da un manipolatore come marionette, di carne in questo caso.
C’è in questo spettacolo una certa libertà nei confronti del mondo bergmaniano al quale bastano i dialoghi ferocemente impietosi che lasciano spazio, con una fortissima drammaticità, proprio perché sono rari, alla violenza fisica. Ma la pièce, nel suo insieme, mostra di avere qualcosa da dire e una serietà di lavoro assolutamente encomiabile.
Una sorpresa fortissima è stato per chi scrive anche il solo tentare di immergersi nel mondo di un regista formidabile come l’ungherese Kornél Mundruczô Imitation of life ispirato a un fatto di cronaca, come si rivelerà solo alla fine. Una storia di povertà, di emarginazione, che rispecchia con uno sguardo fortemente critico la realtà politica e sociale di quel paese percorso da rigurgiti razzisti e di estrema destra C’è una forma di razzismo già nel dialogo iniziale, filmato, fra una povera donna che occupa abusivamente una casa, il viso sfatto dall’indigenza, dalla preoccupazione della vita stessa, che riceve la visita di un ufficiale giudiziario che la deve sfrattare. La casa è fatiscente e questo ufficiale che parla come un padreterno e che non vedremo, mostra nei confronti di questa donna con il suo comportamento le forti differenze sociali, i problemi di un paese come l’Ungheria e in questo caso di una città come Budapest dove neppure il Danubio è più blu, ma, per chi l’ha visto, come chi scrive, scorre grigio a dividere la città in due. Anche il crudele emissario, però, è costretto a farsi quasi un esame di coscienza e dal suo discorso intuiamo che la casa abbandonata in cui la donna si è installata nasconde dei segreti che dovranno – si immagina – essere risolti da chi la abiterà. Si cambia storia e per cambiarla ecco che la casa che sta dentro la scena come in un gigantesco oblò compie un giro su se stessa distruggendo – quasi come in un terribile terremoto – tutto quanto contiene. Un mondo in frantumi, ma non si tratta solo di questo. Questa ruota della violenza, dell’ingiustizia ci mostra un’altra storia, un’altra faticosa lotta per la propria identità. Ora la casa è abitata da una famiglia rom che ha adottato un ragazzo che non lo è e che non accetta la realtà in cui vive fino ad abbandonare la famiglia e andare nella città dove nessuno lo conosce. Ma è l’odio verso se stesso, il suo non accettarsi, il suo non sapere chi si è davvero che lo spinge a un atto di feroce violenza. Che ci viene rivelato dall’improvvisa apparizione negli anfratti del soffitto di casa di una sciabola. Ispirato, come dicevamo, a un fatto di cronaca – l’uccisione su di un autobus di un rom da parte di un altro rom di estrema destra avvenuto a Budapest nel 2015 – Imitation of life è uno spettacolo dolorosamente affascinante, crudele e lucido, colmo di domande (che non hanno risposta) sulla realtà di un paese che potrebbe anche essere il nostro, ahimè. Si esce da questo spettacolo con molti pensieri, con la voglia di parlarne grazie al lavoro di un grande regista, che raccontandoci del suo paese ci parla anche di noi.
Fuori schema, affascinante, intricato e intrigante è El bramido de Dusseldörf del drammaturgo e regista franco-uruguaiano Sergio Blanco. Una storia che agisce su piani diversi mescolando musica e parola. Una storia stralunata che inizia con un figlio che esce dall’ospedale di Dusseldörf dove il padre è stato ricoverato per un infarto per comperare le ciliegie e torna in ospedale dove il padre sta morendo ascoltando il Messia di Haendel. In realtà la storia di questo strepitoso testo, ricco di invenzioni e di fantasia, si muove attorno alla domanda delle domande: perché il padre e il figlio drammaturgo compiono questo viaggio? I motivi possono essere diversi: il figlio va all’inaugurazione di una macabra mostra di cui ha scritto il catalogo, dedicata al serial killer dell’inizio del Novecento, Peter Kurten, assassino di bambini dalla cui storia Fritz Lang trasse quell’autentico capolavoro che è “M”. Il secondo motivo è la firma di un contratto con una famosa casa di produzione cinematografica di film porno; la terza motivazione riguarda il desiderio di confrontarsi con le proprie radici ebraiche anche se la sua richiesta di essere circonciso non viene accettata dal rabbino della grande sinagoga della città. Le motivazioni più diverse dunque che nascono da un titolo che ha comunque a che fare con la morte perché il bramito di cui si dice nel titolo è l’ultimo che il cervo emette prima di morire. Ed è proprio il titolo che scandisce questa vicenda di un padre e di un figlio, scandito fino all’ultimo quadro, per riportarci a una storia sostanzialmente privata, ma che s’intreccia strettamente con la storia di quella città. La ricerca di se stesso si snoda anche lungo un video inquietante firmato da Miguel Grompone che ci riporta le immagini dei lager di Auschwitz-Birkenau sovrapposte alle immagini della città, alla ricerca di un ritorno al giudaismo che – negandogli la circoncisione – il rabbino di fatto nega al protagonista. L’idea di fondo di questo testo imprevedibile e affascinante, percorso da lampi gioiosi di vita dove spiccano ancora di più le immagini insopportabili di orrori passati e presenti, a cui si aggiungono le domande a se stesso che il figlio si impone scendendo dentro quei luoghi dell’anima che mescolano il passato e il presente con tutta la loro violenza, conduce lo spettatore nei labirinti della mente. Il tutto guidato da una musica coinvolgente, interpretato da attori formidabili, che non dimenticheremo; come è impossibile dimenticare questo autore-regista che ha colpito così profondamente il pubblico.