Figli senza volto

Figli senza volto e L’Insonne

Il CRT di Milano propone una formula interessante: due spettacoli ella stessa serata, a orari coordinati, in modo da offrire una situazione di confronto simile a quelle che si trovano di solito nei festivalRenato Palazzi

È una scelta interessante, quella del CRT Milano di presentare in sale diverse del Teatro dell’Arte un “pacchetto” di due spettacoli nella stessa serata, a orari coordinati, in modo da offrire una situazione di confronto simile a quelle che si trovano di solito nei festival. È interessante, appunto, perché propone non il mero consumo di un singolo prodotto, ma un piccolo percorso con tutte le indicazioni, con tutte le riflessioni parallele che se ne possono trarre. Ed è un’iniziativa di sostegno a due realtà milanesi, il gruppo Animanera e il Lab121, che convergono entrambe come compagnie “satelliti” nell’ambito del nuovo CRT, ma che rivelano un panorama più articolato e differenziato di quanto non si pensi.

I due spettacoli sono in qualche modo radicalmente, dichiaratamente opposti sia sul piano dello stile che su quello degli effettivi contenuti. Animanera presenta infatti, per la regia di Aldo Cassano, Figli senza volto, una scarna scheggia dei nostri “anni di piombo”, un frammento della cupa cronaca di un passato non troppo lontano, ricavato da un breve racconto – intitolato Come voi – di Ida Farè, ex-giornalista del “Manifesto”, sulla quotidianità di una coppia di terroristi. Lab 121 ha invece lavorato, sotto la direzione di Claudio Autelli, a L’insonne, una messinscena onirica e visionaria di alcune pagine di Ieri, l’ultimo romanzo della scrittrice ungherese Agota Kristof.

Non voglio stilare delle gratuite e superficiali classifiche di merito, tanto più che Figli senza volto è stato rappresentato – come abbiamo appreso in seguito – in una versione incompleta, a causa di un videoproiettore che ha rifiutato di funzionare. Non so quanto i filmati che il pubblico non ha potuto seguire fossero importanti e incidessero sulla percezione dell’argomento. La compagnia sembrava tenerci molto, e non soltanto per ragioni estetiche. Dirò comunque che, video o no, mi è piaciuto il taglio asciutto, concreto e per certi versi addirittura oggettivo, quasi improntato a un distacco “scientifico”, con cui Cassano si è accostato a una testimonianza che si potrebbe definire antropologica, un materiale da studiare, più che un’esperienza individuale dalla quale prendere più o meno le distanze.

L’azione si svolge in un’angusta stanzetta strettamente a ridosso della minuscola platea, separata solo da un velario che scontorna appena, come in una vecchia foto, l’immagine dell’unico personaggio alla ribalta, una giovane donna interpretata dall’eccellente Natascia Curci (nella foto in alto). Lei è molto brava nel suggerire una sorta di stanchezza dell’ideologia, un’inconfessata nostalgia per quella “normalità” che viene colta nelle vite dei vicini, il caffè del mattino, i buoni-spesa del supermercato. Il testo diventa invece un po’ troppo psicologico – e dunque lievemente sentimentale – quando scivola negli affetti privati, nel rimpianto di un’autentica relazione con un compagno che è tale soltanto agli occhi degli estranei. Il lungo pianto è fuori posto. Ma è piuttosto eloquente il momento in cui, calzando una parrucca e impugnando una pistola, la borghesuccia mancata si trasforma in spietata guerrigliera.

L’insonne, al contrario, si svolge in una dimensione tutta interiore. È la febbrile evocazione di un amore impossibile, che scandisce l’intera esistenza del protagonista – un fuoriuscito, un uomo in fuga da se stesso – ma non può trovare sbocchi, e resta indissolubilmente connesso allo sradicamento, all’insanabile lontananza dai propri luoghi d’origine. In questa vicenda tutto è vago, impalpabile – il parricidio forse commesso da ragazzino, l’incontro in un paese straniero con la donna da sempre sognata, che non sa di essere la sua sorellastra, e persino l’alienante lavoro in fabbrica, che egli allevia con le sue aspirazioni da scrittore – tanto quanto l’altra è concreta, pienamente calata nei fatti.

Lo spettacolo di Autelli è molto raffinato, a partire da quella scena-scatola che fa pensare a un’opprimente gabbia mentale. Il regista toglie consistenza agli avvenimenti, ne cancella ogni precisa connotazione spaziale o temporale, giocando unicamente sulle ombre, sui controluce, sulle vecchie fotografie proiettate, sui suoni amplificati – gocciolii, rovesci di pioggia contro i vetri – che creano lividi effetti spettrali. Solo a tratti si intravvedono degli arredi, un letto di ferro, un’antica carrozzina da neonati, un tavolino da laboratorio: ma le due figure umane, un uomo e una donna, restano sempre in penombra, delle sagome senza volto.

Anche l’adattamento del testo, firmato da Raffaele Rezzonico e da Autelli, corre sul filo di una sottile scissione tra voce e immagine, tra parola e azione, alternando dei brani narrativi registrati, come per bocca dell’autrice, alle impressioni espresse dai personaggi stessi, a dei sommari spezzoni di dialogo. E proprio in questa faticosa stratificazione drammaturgica, in questa struttura verbale mai all’altezza della nitida partitura fisica sta, a mio avviso, il limite dell’operazione: soprattutto quando è affidato all’attrice Alice Conti – la sua controparte maschile, Francesco Villano, se la cava meglio – il racconto si sfilaccia, diventa piatto e monocorde. Varrebbe la pena, credo, di rimetterci mano, di procedere a qualche taglio, di rendere il tutto meno letterario, un po’ più vivo.

Visto al Teatro dell’Arte di Milano. Repliche fino al 23 febbraio 2014

L'insonne

 

 

 

 

 

 

 

 

Figli senza volto
testo: Ida Farè
regia: Aldo Cassano
con: Natascia Curci
video: Semira Belkhir, Marco Burzoni, Stefano Stefani, Federico Tinelli
audio: Antonio Spitaleri
scene: Valentina Tescari
luci: Beppe Sordi
costumi: Lucia Lapolla

L’insonne
da Ieri di Agota Kristof
drammaturgia: Raffaele Rezzonico, Claudio Autelli
regia: Claudio Autelli
scene e costumi: Maria Paola Di Francesco
luci: Simone De Angelis
suono: Fabio Cinicola
sede: Milano, Teatro dell’Arte, fino al 23 febbraio
Renato Palazzi