La gabbia

La gabbia (figlia del notaio)

Renato Sarti, in accordo con l’autore, ha ripreso uno dei testi rivelatori di Stefano Massini, inserendovi dei “tasselli” drammaturgici che ne calano l’azione ancor più profondamente in un preciso momento storico. Quello di massima adesione popolare al terrorismoEnzo Fragassi

Uno dei molti talenti di un drammaturgo ancora giovane ma ormai di provato spessore come Stefano Massini (Ronconi dirigerà la sua ultima fatica Lehman Trilogy al Piccolo, il testo è pubblicato da Einaudi) è quello di saper estrarre la parte dal tutto e dopo averla evidenziata con uno stile epicamente coinvolgente, restituirci quel “tutto” in un modo che ci appare un po’ più chiaro, intellegibile. La gabbia (figlia del notaio) era la prima tappa di un “trittico” che l’autore fiorentino – oggi non ancora quarantenne – scrisse fra il 2005 e il 2008. A quasi dieci anni di distanza, Renato Sarti, regista e a sua volta autore da sempre impegnato in un teatro che svela e critica i fenomeni politici e sociali del nostro tempo, ha sentito l’esigenza di riprendere quel testo, operandovi alcuni inserti drammaturgici che vi aggiungono il senso e il clima di una stagione terribile della nostra storia recente: quella di massima adesione “popolare” al fenomeno terroristico.

Eccoci dunque nella sala di periferia (niente affatto “periferica”, occorre precisarlo) del Teatro della Cooperativa di Milano. La scena è costituita da una serie di lastre di acciaio grezzo che delimitano lo spazio di per sé non ampio del palcoscenico; al centro, non il classico tavolo in formica dei parlatori ma una semplice panca – anch’essa in acciaio –; sopra di essa ondeggia un gelido neon che assieme a quattro spot (luci di Luca Grimaldi e Marco Mosca) contrappuntano i momenti “caldi” e “freddi” della pièce assieme alle aspre sonorità di Carlo Boccadoro. Siamo in un carcere, un carcere di massima sicurezza. Fa caldo, è piena estate. Di fronte, senza parlarsi, due donne. Sono una madre e una figlia, la prima scrittrice affermata, la seconda detenuta da undici anni per aver fatto parte delle Brigate Rosse. Fra loro scorre il fiume di un’ira repressa ma anche sentimenti di attrazione; due caratteri forti che in realtà si somigliano. Entrambe sono prigioniere della “gabbia” del titolo, una gabbia che non è solo fisica ma anche e soprattutto mentale, fatta di convenzioni e falsi miti, dalla quale entrambe forse cercano di sfuggire, non sapremo con quale esito.

L’aspetto più attraente di questa pièce che – come detto – non è una novità, risiedeva a mio parere nel confronto generazionale e, direi, esperienziale, fra l’autore (nel 2005, quando la scrisse, non ancora trentenne) e un artista di lungo corso come Sarti, messi di fronte a un lacerante fenomeno come quello del terrorismo. Che, come ha ricordato giustamente il regista, solo in Italia ha raggiunto una dimensione “di massa”. Tale connotazione potrà forse essere contestata da qualche storico ma alcuni aspetti di adesione sociale al teorema della violenza politica furono negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta del secolo scorso indiscutibili, soprattutto negli ambienti contigui alla sinistra “extraparlamentare” che contava decine di migliaia di aderenti in tutto il Paese. La raggelante canzoncina che Nora (la figlia brigatista) accenna alla madre sbigottita ne è un esempio e bene ha fatto Sarti a inserirla come una scheggia dolorosa nel corpo della pièce.

Benché abbia agito con delicatezza e rispetto, l’intervento di Sarti sul testo originale ha inevitabilmente mutato impianto e natura di La gabbia. Quel che in Massini era il pretesto per mettere a confronto le solitudini e la fragilità di due donne appartenenti a generazioni diverse (una madre e una figlia) di fronte alla complessità della vita, si trasforma qui in una riflessione dura e senza appello – condivisibile o meno, questo poco importa – su un periodo preciso della nostra storia, riflettendo in definitiva lo stesso divario generazionale che separa autore e regista. Due visioni profondamente diverse alla ricerca di una sintesi non facile.

La tensione drammatica che le partecipi Federica Fabiani e Vincenza Pastore riescono a trasmettere al pubblico per circa un’ora risulta così un po’ attutita, risentendo in un certo senso di un doppio registro interpretativo, ma rivela ancora una volta quale straordinario strumento di autoanalisi sia il teatro, capace nella finzione di rivelare gli aspetti profondi di ognuno di noi.

Visto al Teatro della Cooperativa di Milano. Repliche fino al 30 marzo 2014

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