Dopo 12 anni e nel generale clima di ristrettezze, anche la rassegna milanese dedicata alle performing arts ha dovuto fare i conti con una ridotta capacità di cambiamento. Malgrado ciò, ecco le impressioni su alcuni fra i titoli più attesi – Renato Palazzi
È difficile, dopo dodici anni, trovare nuove strade, nuovi sbocchi per un festival come Uovo: la rassegna milanese dedicata alle performing arts è molto specialistica. Attinge a un genere di proposte che, al momento, resta chiuso in un suo ambito circoscritto, rivelando delle ridotte capacità di cambiamento, e deve basarsi su una rosa internazionale di nomi – da Alessandro Sciarroni a Jerome Bel – che per forza di cose è piuttosto limitata.
Il tutto, come sempre, deve avvenire grazie a risorse economiche sempre meno abbondanti (ma questo, per quanto riguarda i festival italiani, è ormai inutile aggiungerlo). Dato quello che passava il convento, il suo direttore artistico, Umberto Angelini, ha comunque messo in piedi un programma interessante. Conoscendolo, immagino che gli sarebbe piaciuto inserirvi qualche evento più spiazzante. Ma non è certo colpa sua se certe energie creative sono parse un po’ frenate.
Cercherò di sintetizzare qualche impressione su alcuni dei titoli più attesi.
The quiet volume. È la performance degli inglesi Ant Hampton e Tim Etchells – il regista del gruppo Forced Entertainment – affascinante soprattutto per il luogo nel quale si svolgeva, la grande sala di lettura della Biblioteca Sormani. Il suo funzionamento, riservato a due persone per volta, era basato sull’uso di cuffie da cui voci suadenti trasmettevano indicazioni di comportamento, evocavano suggestioni di atmosfera, leggevano brani dei libri che i partecipanti avevano sotto gli occhi.
La più riuscita mi è parsa la prima parte, dedicata soprattutto a sviluppare un rapporto sensoriale con l’ambiente, a cogliere i rumori tipici di un luogo di silenzio come una biblioteca, i fogli di quaderno strappati, gli oggetti estratti dalle borse, i borbottii, i colpi di tosse, e poi ad analizzare l’atto fisico del leggere, del tradurre i caratteri sulla pagina in parole significanti, dell’ascoltare la propria voce interiore di lettore.
Poi il percorso stabilito ci trascinava dentro frammenti dei testi predisposti sul tavolo, davanti alle nostre postazioni – Cecità di Saramago, Trilogia della città di K. di Agotha Kristof, Quando eravamo orfani di Kazuo Ishiguro – sempre sotto la ferrea guida della voce in cuffia: vai a pag. 121, quarta riga, torna a pagina 80 penultimo capoverso, mostra a chi ti sta accanto il brano che stai affrontando, e in questa fase il progetto, che ambiva a suscitare delle emozioni letterarie, si faceva un po’ più pretenzioso.
Nell’insieme, The quiet volume sviluppava un’intuizione intelligente, quella di scomporre e analizzare l’avventura mentale del leggere. L’idea di un’azione comandata da una voce in cuffia non era proprio originale, dato che ricalcava piuttosto fedelmente un’analoga esperienza di qualche anno fa, Rotozaza, che avveniva ai tavoli di un caffé, concepita non a caso dallo stesso Ant Hampton. Va anche detto che l’interazione fra i due soggetti coinvolti, ridotta al minimo, risultava piuttosto pretestuosa. Si trattava, in definitiva, di un puro gioco, però curioso e raffinato.
Solo. L’anno scorso il gruppo milanese Strasse, con la sua creazione “automobilistica” Drive in – in cui un singolo spettatore si trovava ad assistere a brevi scene enigmatiche da una macchina in corsa per le vie della città – era stato fra le rivelazioni del festival. Quest’anno Solo conferma, in linea di massima, la validità di una certa direzione di ricerca, ma lascia molti dubbi sull’effettiva compiutezza del percorso intrapreso.
La modalità di partecipazione era più o meno la stessa, anche se sviluppata a piedi e non in auto. Si veniva convocati per un’ora stabilita in un luogo stabilito, comunicato via sms, che era – nella circostanza – un binario della stazione centrale, all’arrivo di un treno da Livorno. Qui si attendevano istruzioni, scrutando la gente tutt’intorno, cercando nei volti o nell’abbigliamento il segnale che potesse non trattarsi di comuni viaggiatori.
Ti abbordava infine una ragazza, difficile da individuare, invitandoti a seguirla nell’atrio al pianterreno. Qui, lasciato solo, restavi ad aspettare ulteriori indicazioni, che arrivavano attraverso messaggi telefonici: sali la scala mobile, costeggia un treno con sopra una donna addormentata, scendi nel sottopassaggio. Qui avveniva un piccolo coup de théâtre: una ragazza cadeva improvvisamente a terra, e si affannava a raccogliere penosamente dei pupazzetti sparsi sul pavimento. I messaggi imponevano quindi di raggiungere un’uscita, di avviarsi lungo il binario, e arrivati in fondo si veniva avvisati che tutto era finito.
Come in Drive in, il vero succo della proposta stava nel continuo sovrapporsi di vita e finzione, di gesti reali, appartenenti a persone “vere” (per quello che ciò può significare) e atti orditi per l’occasione dalle autrici-registe, Francesca De Isabella e Sara Leghissa: quel ragazzo che passa ascoltando una musica chiassosa, quella signora vestita vistosamente apparterranno alla quotidianità o faranno parte di una messinscena? Questo dubbio, questo costante mescolarsi dei due piani è senza dubbio il risultato più stimolante dei progetti di Strasse. Sorprende, e fa riflettere.
Ma la struttura “drammaturgica”, qui, era molto sommaria, molto povera: mancava quel tanto di costruzione vagamente cinematografica che caratterizzava Drive in, mancava il mistero di quegli spezzoni di un’insondabile vicenda che, a intermittenza, scorreva sotto i nostri occhi di passeggeri. L’idea di addentrarsi nel caos della Stazione Centrale all’ora di punta era promettente, ma complessa da gestire: difficile, in quel viavai, distinguere la «ragazza col foulard» o l’uomo «col trolley nero». Ancora più difficile ricavarne gli embrioni di una storia. È chiaro che su questo nucleo bisogna ancora lavorare a lungo.
Attore, il tuo nome non è esatto. È la breve creazione che Romeo Castellucci ha presentato tre anni fa a Venezia, a conclusione di un laboratorio da lui condotto alla Biennale Teatro, e riproposto la scorsa estate al festival Drodesera, dove personalmente l’ho vista. Più che di uno spettacolo vero e proprio, si tratta di una sequenza di dieci esercizi interpretativi su un tema comune, quello della possessione, dell’attore come entità passiva visitata e mossa da forze estranee.
Il materiale usato, coerentemente con questo intento, riguardava proprio dei casi di individui penetrati dagli spiriti. La sua composizione seguiva uno schema fisso: prima si sentivano le voci registrate dei veri invasati e degli esorcisti, mentre scritte luminose indicavano la data e il luogo dell’evento. I giovani attori entravano quindi nello spazio deputato, si contorcevano, si rotolavano, mimavano squassanti convulsioni, ciascuno secondo un proprio ritmo e un proprio stile. Poi spegnevano il registratore rivolgendo al pubblico un sorriso molto ambiguo.
Proprio questa ambiguità pareva la chiave dell’operazione: l’ambiguità di fenomeni in cui il confine tra realtà e suggestione è alquanto labile, l’ambiguità di un’attività, come quella del recitare, che si svolge sempre sull’orlo di un abisso dell’identità, dove è arduo tracciare una netta demarcazione tra la costruzione razionale e il richiamo primario dell’istinto. È comunque interessante vedere come un regista così lontano da qualunque metodologia stanislavskiana abbia invece lavorato su quella che, di fatto, è un’esasperazione del concetto di immedesimazione.
Untitled_I will be there when you die. È molto affascinante l’idea di Alessandro Sciarroni di trasformare in astratta coreografia i movimenti sincronizzati, le silenziose relazioni reciproche fra quattro jongleur che lanciano in alto e recuperano al volo i loro birilli, le loro classiche “clavette”, tracciando nell’aria imperscrutabili geometrie, ricavandone quasi degli enigmatici geroglifici: ed è ancora più affascinante il fatto che la loro esibizione non ha come fine una dimostrazione di infallibilità, una perfetta e necessaria riuscita dell’esercizio, ma contempla proprio la possibilità dell’errore, il rischio della defaillance sempre incombente.
Si tratta, senza dubbio, di un’acre metafora della vita, che dal punto di vista dello spettacolo in senso stretto non consente però molti sviluppi. Da estimatore di Sciarroni, temo che stavolta il suo gelido concettualismo gli abbia preso un po’ la mano. Ho visto Untitled a Santarcangelo, non a Milano, e può darsi che da allora la performance sia cambiata: ma devo dire che allora mi era parsa piuttosto monotona e ripetitiva, più bizzarra intellettualmente che davvero in qualche modo coinvolgente.