Zio Vania, oggi come ieri l’impossibilità di mutare il destino

L’ottima prova attoriale della compagnia Oyes si sposa alla svelta ma puntuale rilettura del testo di Cechov, che qui assume ancora più acri riflessi di un disagio generazionale- Renato Palazzi

Quella proposta dalla compagnia Oyes è – dopo Beyond Vanja di Francesco Leschiera – la seconda messinscena di Zio Vanja realizzata in pochi mesi da gruppi giovani o comunque meno aderenti anagraficamente ai personaggi cechoviani. E’ singolare questa attrazione nei confronti di un testo che tradizionalmente viene associato a interpreti più maturi. Si supporrebbe che degli attori trentenni sentano più vicino Il gabbiano, ad esempio, in cui in fondo si parla di due ragazzi che non riescono a realizzarsi come avevano sognato. Ma Zio Vanja probabilmente piace per il senso di immobilità che esprime, per la mancanza di prospettive che soffoca i protagonisti. E’ questa impossibilità di mutare il proprio destino che offre oggi un acre specchio generazionale.

Va detto che il regista Stefano Cordella fa davvero di tutto per ottenere che l’ ensemble – interamente composto da ex-allievi dell’Accademia dei Filodrammatici – assimili il testo in profondità, lo faccia proprio sia nel senso della lingua che dei sentimenti che vi si agitano. La trama cechoviana, drasticamente riscritta, è limitata solo alle quattro figure principali, Vania, trasformato in Ivan, un fallito perdigiorno, Sonia, una goffa ragazzotta che sogna di andare a Londra a fare la cameriera per poi diventare una star della canzone, Elena, una bellona gelida ma emotivamente fragile e il dottore, antico compagno di zingarate di Ivan che ormai, come lui, non fa che vivere di rimpianti.

L’anziano professore, che qui diventa «il Sergio», fratello di Vania-Ivan, è invece un malato terminale che giace in stato vegetativo in qualche stanza della casa, e di cui avvertiamo, di tanto in tanto, solo il rantolo ansimante nella macchina che lo tiene in vita: nella visione del regista non è in cattivi rapporti con Ivan, che anzi si commuove per la sua sorte (in questa versione il conflitto per la vendita della casa scompare), ma tutti in un modo o nell’altro sono in attesa che l’agonia finisca. E quell’esistenza sospesa, che incombe su di loro, assurge a riflesso di una condizione esistenziale, la metafora di una rassegnata impotenza.

L’allestimento è di un’essenzialità quasi minimalista, quattro sedie bianche, ciascuna dotata di una propria, piccola luce che le pende accanto, e una sorta di telaio di porta, ugualmente bianco, affacciato verso il nulla. Da un lato c’è il tavolo di regia, con le apparecchiature tecniche bene in vista. Di costumi ovviamente non si parla, sono abiti di oggi, completamente anonimi. Gli attori, tendenzialmente, restano tutti insieme alla ribalta, in attesa di intervenire, salvo i momenti in cui uno di loro, a turno, va a sedere al tavolo di regia o accenna a uscire attraverso la porta, per poi fermarsi lì, restando come ad ascoltare di soppiatto.

La Russia è ben lontana, gli avvenimenti sono spostati in un soffocante piccolo centro della nostra provincia. Ai personaggi, soprattutto a Vania-Ivan, viene attribuita una parlata dagli accenti fortemente lombardi, di cui la formula «il Sergio» è un’espressione emblematica. Il livello culturale pare basso: l’idolo dei due maschi è Savićević, fuoriclasse del Milan anni Novanta, il loro mito è la Coppa Campioni vinta contro il Barcellona. Il tono della conversazione è volgare e goliardico: il dottore vanta presunte prodezze sessuali nel passato di Ivan, che «era un Kalaschnikov, non mancava un colpo», ma questa immagine di impenitente dongiovanni suona improbabile, alquanto enfatizzata.

Nulla, in tutto ciò, rimanda alle impalpabili atmosfere cechoviane. Eppure il buon lavoro della compagnia si vede proprio dal fatto che lo spettacolo, in scena allo Spazio Tertulliano di Milano, tanto più sembra arrivare a Cechov per altre vie quanto più mostra di prenderne le distanze. Specialmente le tre conversazioni centrali fra Astrov e Sonia, fra Sonia ed Elena, fra Elena e Astrov – quando Elena si offre di sondare il dottore sulle sue intenzioni nei confronti della ragazza – mantengono con sorprendente delicatezza quel clima di non detto, quel non andare mai dritto allo scopo che è proprio del testo originale. Nonostante i modi grezzi, nonostante l’eloquio terra a terra, i personaggi riescono a evocare un’intatta intensità di stati d’animo, un lacerante groppo di disperazione, di insanabile vuoto interiore.

Non manca, in questo sottile gioco di contrasti fra la loro superficialità e lo spessore dell’angoscia che li attanaglia, la tipica tendenza delle creature cechoviane a proiettarsi in un ipotetico altrove di felicità, suggerito in questo caso dal bel dialogo fra Elena e il dottore sulla coppia che abita nella casa di fronte. E non manca l’intempestiva entrata di Vania-Ivan col mazzo di fiori per Elena, esattamente nel momento in cui lei sta per accettare la corte dell’altro. Non ho invece del tutto capito la ragione per cui viene attribuito a Elena il tentativo di Vania di sottrarre una fiala di morfina dalla borsa del dottore. Nella rispettosa irrispettosità di questo approccio a Cechov, mi sembra un inutile strappo che non aggiunge nulla, che non conduce da nessuna parte.

Se questo sforzo di attualizzazione non scade nel banale, ma si mantiene anzi su livelli di una certa finezza, lo si deve anche all’ottima prova degli attori: spiccano, in particolare, la penetrante Sonia di Francesca Gemma, che tratteggia con sensibilità e intelligenza un’adolescente del nostro tempo, smarrita e priva di salde radici, e l’Ivan-Vania dell’esuberante Fabio Zulli, un amabile buono a nulla perso nei sogni di chissà quali improbabili vittorie. Umberto Terruso è misurato nel ruolo del dottore, mentre Vanessa Korn indossa con disinvoltura i panni della bionda distaccata che si finge superiore, ma sta anche peggio degli altri.

visto a Milano, Spazio Tertulliano,in scena  fino al 28 febbraio.

«Vania»
ideazione e regia: Stefano Cordella
costumi e realizzazione scene: Stefania Coretti, Maria Barbara De Marco
disegno luci: Christian Laface
drammaturgia collettiva
organizzazione: Giulia Telli
con: Francesca Gemma, Vanessa Korn, Umberto Terruso, Fabio Zulli