Zio Vanja and Beyond

“Beyond Vanja”, la pièce diretta da Francesco Leschiera, è caratterizzata da un paio di notevoli invenzioni, e da alcuni limiti e contraddizioni che derivano da questeRenato Palazzi


È uno spettacolo pieno di spunti interessanti questo Beyond Vanja presentato alla Cavallerizza del Teatro Litta di Milano, un personale adattamento dello Zio Vanja di Cechov che il regista Francesco Leschiera ha realizzato col Teatro del Simposio in collaborazione con le Manifatture Teatrali Milanesi. La sua messinscena, strettamente legata alla rielaborazione drammaturgica di Antonello Antinolfi, è caratterizzata da un paio di notevoli invenzioni, e da alcuni limiti e contraddizioni che derivano da queste come loro dirette conseguenze, o inevitabili effetti collaterali.

La prima e la più determinante di queste invenzioni è la scelta di tagliare drasticamente il numero dei personaggi e dunque l’andamento complessivo dell’azione, su cui influisce soprattutto l’eliminazione di una figura fondamentale, l’anziano professor Serebrjakov, l’ex-genero di Vanja che con la sua prosopopea, il suo egocentrismo e le sue ipocondrie condiziona la vita di tutti gli altri. Dodin, anni fa, ne aveva fatto l’autentico protagonista del testo, Leschiera e Antinolfi lo fanno sparire, o quanto meno ne mantengono la presenza incombente ma invisibile, come l’eco di una voce senza corpo che arriva dall’esterno, attraverso le furiose caricature che ne fa Vanja e i commenti dell’ambiente  famigliare.

A parte Telegin, il possidente impoverito che vive con Vanja e con sua nipote Sonja nella tenuta da loro gestita, l’unico comprimario sopravvissuto a questo radicale sfrondamento, i protagonisti della vicenda si riducono dunque a quattro, Vanja e Sonja, appunto, l’affascinante Elena, la giovane moglie di Serebrjakov, e il dottor Astrov. In questo modo, Leschiera sembra mettere le loro relazioni e i loro sentimenti sotto una sorte di lente di ingrandimento: scomparso il quieto ron ron della vita quotidiana nella casa di campagna, resta solo – come un nucleo di dolore allo stato puro – quell’amaro gioco di coppie mancate, Vanja che vorrebbe Elena, Sonja che vorrebbe Astrov, Astrov che per un attimo potrebbe avere Helena, ma poi non accade nulla, tutto torna come prima, rimpianti, frustrazioni, occasioni mancate.

Questo effetto come di un “primo piano” sull’interiorità dei personaggi principali è accentuato dal particolare impianto scenografico, una struttura di vetro e acciaio, una specie di serra collocata al centro dello spazio, col pubblico seduto ai lati che guarda al suo interno come spiandone gli abitanti. Nei momenti di più forte tensione emotiva, questi ultimi cercano di parlarsi, di toccarsi o di sfuggirsi attraverso le pareti trasparenti, manifestando così la propria impotenza, il proprio isolamento, il muro di solitudine che li separa.

In quella metaforica gabbia mentale, significativamente, c’è per giunta una tavola imbandita dove i personaggi, vestiti in abiti moderni, siedono a turno mangiando cibi veri, in una sorta di ininterrotto ma stanco banchetto, la proiezione materiale dell’affermazione secondo la quale, da quando Serebrjakov e la moglie si sono installati nella casa, non si lavora più, si mangia e si beve a ogni ora, si sprecano inutilmente le giornate. Quel mangiare pigro, meccanico, senza piacere, ancor più dell’ubriacarsi di Vanja e Astrov, ha un che di ottuso e regressivo, come una rinuncia alla sfera intellettuale. Fuori dalla struttura c’è un’altalena su cui, di tanto in tanto, qualcuno sale e si lancia in un’oscillazione nervosa, sottilmente angosciata, emblema di un’ulteriore perdita di tempo, di un volo non liberatorio e non catartico.

Questa esasperata messa a fuoco, questo obiettivo spietatamente puntato solo su alcuni stati d’animo nell’insieme funziona, ottiene l’effetto desiderato. Pur con qualche scompenso – la scrittura cechoviana, così compressa, perde il suo ritmo naturale, ha meno respiro, diventa un po’ ripetitiva – l’assenza di Serebrjakov, fino a un certo punto, non crea contraccolpi, non altera il senso della trama. Poi, però, il nodo viene al pettine nella scena-clou in cui il professore annuncia il proposito di vendere la tenuta per investire il ricavato in titoli, e Vanja tenta di sparargli, mancando il bersaglio. Se quest’ultimo gesto si risolve bene con un colpo di pistola che pare arrivare dalla stanza accanto, il discorso di Serebrjakov non si può eludere, e questo crea un problema.

Leschiera lo risolve con un messaggio letto da Vanja ad alta voce, ma è  brutto, sa di espediente, ed è anche inverosimile: perché mai uno che vive nella stessa casa dovrebbe comunicare le proprie intenzioni per iscritto? Non sta ovviamente al recensore indicare  delle soluzioni di regia, ma meglio sarebbe se lo stesso Vanja riferisse le parole di Serebrjakov facendogli il verso, come  avviene d’altronde in altre circostanze, senza il ricorso alla lettera spuntata da chissà dove, che è un artificio da vecchio teatro.

Anche la permanenza di Telegin in quel contesto ridotto mi sembra piuttosto inspiegabile: non è che disturbi, ma è di troppo. Non so se esista qualche ragione tecnica – un raccordo, una battuta chiarificatrice – per cui è stato mantenuto al suo posto, ma a mio avviso il progetto drammaturgico sarebbe risultato più nitido e definito se fossero rimasti in scena solo i quattro personaggi principali, in un’ideale arena riservata solo a loro, in un recinto di emozioni nel quale non fosse ammesso nessun estraneo.

Sul fronte degli interpreti – Ettore Di Stasio, un Vanja trucemente rabbioso, Matteo Ippolito, un Astrov più tormentato di quanto l’insolita rotondità fisica faccia pensare, Alessandro Macchi, un puntiglioso Telegin – spicca soprattutto Sonia Burgarelli nei panni della sua omonima Sonja, che lei affronta da giovane attrice di grande sensibilità, capace di tratteggiarne i più segreti turbamenti con mille piccoli gesti inquieti, sguardi, sfumature, e persino di suggerirne l’asserita, scarsa avvenenza solo in virtù del puro talento recitativo, essendo di aspetto tutt’altro che spiacevole. Credo che ne sentiremo ancora parlare. Meno spessore mi è parsa avere la Elena di Giulia Pes: ma forse questa è una colpa dell’autore, che non si è troppo sforzato di dare maggiore consistenza alla sua creatura.

Visto al Teatro Litta di Milano. Fino al 27 novembre 2015

Beyond Vanja
tratto da Zio Vanja di Anton Cechov
elaborazione drammaturgica: Antonello Antinolfi
regia: Francesco Leschiera
scene e costumi:Francesco Leschiera, Alice Manieri, Chiara Bartali
luci: Luca Lombardi
con: Sonia Burgarello, Ettore Di Stasio, Matteo Ippolito, Alessandro Macchi, Giuia Pes