Tutto l’andamento di questo bel testo di Simon Stephens messo in scena da Elio De Capitani con chirurgica sensibilità appare scandito da ritmi sospesi, silenzi, pause introspettive. Vi si potrebbe applicare la celebre formula dell’autore russo: «Prendi qualcosa dalla vita reale, di ogni giorno, senza trama e senza finale…» – Renato Palazzi
Sarah, la figlia diciassettenne di Harper Regan, la protagonista dell’omonimo testo di Simon Stephens, raccontando alla madre le conversazioni dei compagni di scuola dice che parlavano «di quanto sarà figa la vita tra cent’anni». Per quanto riguarda lei, precisa la ragazza, pensa che tra cent’anni «saremo completamente nella merda». Questi interrogativi sulla vita futura, per quanto espressi in un linguaggio ben altrimenti disinvolto, e per quanto la risposta non lasci margine a illusioni di sorta, sembrano citazioni degradate di certi passi delle opere di Cechov, di certe battute dei personaggi di Zio Vanja o Tre sorelle in cui ci si chiede se la gente, un secolo dopo, sarà contenta e avrà risolto i suoi problemi.
Ma cosa può avere a che fare un autore inglese di oggi con lo spleen cechoviano degli inizi del Novecento? Niente, evidentemente. Ogni riferimento è da considerarsi casuale. Poi, però, la mamma di Harper rievoca i momenti in cui aspettava «che la vita cominciasse», senza accorgersi che quella era la vita, e Harper dichiara che nulla avvelena le persone più dei rimpianti, e suo marito decanta i meriti della nostra specie, che può studiare la storia dei fossili o esplorare le stelle, con lo stesso fervore con cui il dottor Astrov, in Zio Vanja, traccia le mappe dei boschi e conserva le memorie delle antiche coltivazioni. E allora, fatte le debite proporzioni, vien da pensare che quei riferimenti a Cechov non siano più tanto casuali.
Tutto l’andamento di questo bel testo messo in scena all’Elfo Puccini da Elio De Capitani, curato e tradotto da suo figlio Lucio, appare scandito da ritmi sospesi, silenzi, pause introspettive. I suoi dialoghi nervosi, mutevoli, caratterizzati da continui passaggi da un argomento all’altro, da un alternarsi di sfrontata franchezza e di non-detti, reticenze, pudori sembrano voler cogliere lo stesso impalpabile fluire cechoviano delle cose, la stessa lancinante mancanza di scopo. Ad Harper Regan si potrebbe tranquillamente applicare la celebre formula dell’autore russo: «Prendi qualcosa dalla vita reale, di ogni giorno, senza trama e senza finale…».
Al centro dell’azione c’è una donna quarantenne che, in preda a inquietudini esistenziali, lascia la sua casa nei sobborghi di Londra, il lavoro, la figlia e il marito – coinvolto anni prima in un caso di pedofilia – per andare a far visita al padre morente. Arriverà troppo tardi. Ma quei due giorni si tradurranno in una serie di incontri che le serviranno per provare a ridare un senso alla sua vita: il datore di lavoro che rifiuta di accordarle il permesso di assentarsi, il giovane abbordato per strada con una banale scusa, la svampita infermiera dell’ospedale, il giornalista fascista conosciuto in un pub, di cui respinge le avance colpendolo con un bicchiere, l’uomo maturo con cui va a letto in una stanza d’albergo, la madre odiata, con cui arriva finalmente al necessario chiarimento, sono il variegato campionario umano nel quale lei si rispecchia, cercando punti fermi nel proprio modo di essere.
Questa idea di un viaggio materiale che diventa un tragitto negli affetti e nei valori non è forse particolarmente originale: ogni viaggio, letterario o teatrale che sia, è in fondo una discesa nell’anima di chi lo compie. Ma ciò che conta, qui, è la forma in cui esso si esprime, improntata a un’acre leggerezza, a una scrittura scarna, fatta di fraseggi brevi, di rimandi allusivi. In quella falsa spigliatezza si cela un grumo di dolore, una solitudine, un’incapacità di trovare appigli che non è riconducibile solo al malessere dei singoli personaggi, ma è parte della condizione umana, dei rapporti fra madri e figlie, fra mogli e mariti.
Ognuno di costoro sembra portare in sé un diverso marchio dei vizi e delle contraddizioni del nostro tempo, ma affrontati con una sorta di pietosa comprensione, come un tratto ineluttabile, una necessaria componente dell’individuo, che può piacere o dispiacere, ma con cui si devono fare i conti. Ed è piuttosto insolito, questo approccio delicato, in una drammaturgia come quella britannica, che si è spesso distinta negli scorsi anni per la forzatura dei toni, per il linguaggio violento e concitato. Alla fine, lei confida al marito di essere stata con un altro, e lui risponde esponendo la visione di un futuro in una casa di campagna, con un fienile sul retro, dove invecchiare insieme e aprire il vino per la figlia incinta venuta in visita col suo ragazzo: e questo epilogo incongruamente sereno, questo ideale destinato probabilmente a non realizzarsi mai indica però una possibilità di reagire al dolore, di convivere con esso pur senza riuscire a debellarlo.
De Capitani ha allestito questa pièce del 2008 con la stessa sensibilità chirurgica manifestata dall’autore: dico chirurgica, senza che il termine implichi alcunché di cruento. Anzi, la candida ambientazione – quasi da sala operatoria, appunto – in cui gli avvenimenti sono immersi li rende a loro modo asettici, li interiorizza, li libera dal peso di un’opprimente quotidianità ponendo spietatamente in risalto ogni singola parola ed emozione. Lo spazio bianco sormontato da una tettoia di vetro trasparente – quasi il soffitto di un loft o di un capannone industriale – e scandito sul fondo da tre porte che immettono in altrettanti, ulteriori anfratti, si trasformano senza sforzo nei diversi luoghi interni o esterni attraversati da Harper, ma potrebbero anche indicare uno stesso luogo, sede di un viaggio senza spostamento, un viaggio immobile nella coscienza o nella memoria.
Ciascun personaggio è tratteggiato dal regista con cesellata precisione. La qualità dell’interpretazione è buona, non sempre all’altezza del tormentato affresco collettivo. A Elena Russo Arman (nella foto con Martin Chishimba), brava attrice, come sempre, manca forse in questo caso il physique du rôle della quarantenne vissuta e stazzonata: pur avendone l’età, sembra più fresca, dentro e fuori, di quanto richieda il personaggio. Fra gli altri, mi è parsa molto convincente Cristina Crippa nel ruolo della madre, consapevole e disillusa quanto basta. Non è male Christian Giammarini nei doppi panni del marito e dell’amante, non è male Marco Bonadei, il giornalista cocainomane e antisemita. Camilla Semino Favro calca fin troppo i tratti sia della figlia che dell’infermiera, Francesco Acquaroli e Martin Chishimba danno una robusta caratterizzazione alle figure del datore di lavoro e del giovane, ignoto confidente di Harper.
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Repliche fino al 6 marzo 2016
Harper Regan
di Simon Stephens
traduzione: Lucio De Capitani
regia: Elio De Capitani
scene e costumi: Carlo Sala
luci: Nando Frigerio
suono: Giuseppe Marzoli
con: Elena Russo Arman, Cristina Crippa, Francesco Acquaroli, Marco Bonadei, Martin Chishimba, Cristian Giammarini, Camilla Semino Favro