Un premio Pulitzer americano come autore, due interpreti di qualità come Michela Cescon e Luca Lazzareschi e un bravo regista come Roberto Andò non bastano a elevare “Good people” dalla mediocrità. Un’occasione sprecata – Renato Palazzi
Mi sembrava importante assistere a Good people, la pièce dell’autore americano David Lindsay-Abeire, perché il testo era stato preceduto da una buona fama ancor prima del suo debutto, avvenuto lo scorso giugno al Napoli Teatro Festival; perché l’autore vanta ottime credenziali, vincitore di un premio Pulitzer e sceneggiatore cinematografico di successo; perché lo spettacolo segnava il ritorno al teatro, dopo tanti anni, di un’attrice bravissima come Michela Cescon, per giunta tanto innamorata del copione da acquistarne i diritti e produrne la messinscena di tasca sua; perché ad affiancare la Cescon c’è un attore capace di prove strepitose come Luca Lazzareschi; e perché la sede stessa, il Teatro Franco Parenti, è garanzia di una programmazione di alto livello.
Il minimo che si possa dire, dopo avere constatato il risultato finale di una tale somma di motivazioni ed entusiasmi e ragioni d’attrazione, è che si è trattato di un’occasione sprecata: in una situazione già piuttosto asfittica come quella che sta vivendo al momento una certa parte del teatro italiano – non tutto, per fortuna – viene da pensare a quanto meglio si sarebbero potute investire quelle energie, non soltanto economiche. E a come la Cescon, per riprendere il contatto fisico, diretto col lavoro in palcoscenico – da producer aveva già contribuito alla realizzazione dell’avvincente trilogia di Tom Stoppard The coast of Utopia – potesse forse permettersi di aspettare un’opportunità più degna del suo talento.
Spiace, essere duri, ma a volte la franchezza è segno di rispetto più delle mezze misure. Good people, sia chiaro, non è un brutto testo. È un po’ peggio di un brutto testo. È un testo qualunque. Prevedibile. Senza scarti. Un prodotto, confezionato per essere tale. Un insignificante bozzetto scritto oggi come avrebbe potuto essere scritto quarant’anni fa. Il tema stesso che sta al centro dell’azione, quello dell’uscire o no dal vecchio quartiere nel quale si è cresciuti, del far fortuna nella vita rinnegando le proprie origini, e perdendo sostanzialmente la propria umanità, sembra molto legato a ciò che una volta si definiva il “sogno americano”, a certi miti di ascesa sociale un tempo tipici degli Stati Uniti. Ma oggi, fra crisi, dubbi, contraccolpi del capitalismo, sarà ancora così? E ci interessa ancora tutto questo?
La vicenda ruota attorno al personaggio di Margie Walsh, una poveraccia che perde il lavoro a causa dei continui ritardi che le sono imposti dalla necessità di accudire una figlia handicappata. Per trovare un’altra occupazione pensa di rivolgersi a Mike, un vecchio amico con cui ha avuto una breve storia nello squallido sobborgo nel quale tutti e due sono nati, e dove lei vive ancora. Mike, invece, ha potuto studiare, ed è diventato un agiato medico, con una bella casa in una strada altolocata. Margie si presenta nel suo studio, dove lui la tratta con una certa degnazione, poi si presenta a casa, pensando di trovarvi una festa di compleanno che è stata invece annullata. E così resta lì, nell’elegante salotto, faccia a faccia con Mike e con sua moglie, che vorrebbe darle una mano.
A questo punto lo spaccato pseudo-realistico degenera in feuilleton: irritata dall’imbarazzo dell’uomo, che dimostra di volerla tenere a distanza, Margie rivela a entrambi che la figlia handicappata era in realtà di Mike, che lei avrebbe potuto usare questo argomento per trattenerlo accanto a sé, e invece ha rinunciato, l’ha lasciato andare per non intralciare la sua ascesa. Poi, pentita, rinuncia una seconda volta a rivendicare dei diritti, dice che non è vero, che si è inventata tutto, e torna umilmente al suo quartiere di perdenti. Ma sia Mike che la moglie hanno capito bene come stanno davvero le cose, e soprattutto quest’ultima ha avuto modo di soppesare che razza di stronzo sia suo marito.
Che dire, di fronte a questo plot che sa di polvere? Che siamo ancora ai figli della colpa e al passato che ritorna, come in un melodramma ottocentesco? Che siamo ai film di Raffaello Matarazzo con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson, Catene, I figli di nessuno, Tormento, forse persino con qualche tocco di malizia in meno? Ai fotoromanzi anni Cinquanta, “Grand Hotel”, “Bolero”? E c’era bisogno di scomodare un autore americano per approdare a un esito del genere?
Quanto allo spettacolo, non c’è molto da aggiungere. Il regista Roberto Andò sembra il meno colpevole. La sua messinscena è abbastanza asciutta, pulita. Si sarebbe potuta adattare a qualunque altro testo, ma pazienza. Lazzareschi è un attore superlativo quando è inserito nel contesto giusto: qui fa il minimo indispensabile, tende a sparire, a uniformarsi. I personaggi secondari, le amiche rozze ma buone, il commesso del supermercato, sono macchiette senza infamia e senza lode. La sorpresa negativa viene proprio dalla Cescon, che personalmente ho sempre stimato e ammirato, ma che è incorsa stavolta in una scelta evidentemente sbagliata: il personaggio di Margie, con quegli atteggiamenti un po’ sguaiati, da maschiaccio, le si attaglia pochissimo, le prende la mano, la porta fuori strada. Che peccato!
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Repliche fino al 10 febbraio 2015
Good people
di David Lindsay-Abaire
traduzione di Roberto Andò e Marco Perisse (Testo pubblicato da Bompiani, 2014)
con Michela Cescon, Luca Lazzareschi, Loredana Solfizi, Roberta Sferzi, Nicola Nocella, Esther Elisha
regia Roberto Andò
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Ursula Patzak
musiche Carlo Boccadoro
produzione Michela Cescon – Zachar Produzioni srl – Teatro Stabile di Catania – Napoli Teatro Festival
Abbiamo ricevuto la seguente e-mail indirizzata a Renato Palazzi, autore della recensione. La pubblichiamo integralmente con una breve replica dell’interessato. Al quale noi tutti di Delteatro.it ci stringiamo solidali. e.f.
Caro Palazzi
mi dispiace che non abbia capito nulla di Good People, ma non mi stupisce: lei fa parte di quella categoria di critici maleodoranti, intellettuali stitici e di scrittori falliti incapaci di riconoscere il nuovo e il talento. Zygmunt Bauman che è un filino più conosciuto e più stimato di lei ha intrattenuto il Franco Parenti spiegando al pubblico perché si trattasse di un grande testo (rivoluzionario l’ha definito) e di un eccellente spettacolo. Non si può piacere a tutti. Partendo da questo assunto meglio piacere a Bauman che a un Palazzi qualsiasi. Le sarei grato se d’ora in avanti evitasse le produzioni Zachar. Siamo diversi da lei terrei perciò oltreché alla differenza anche a una certa distanza.
Stefano Barigelli
Zachar Produzioni
Risponde Renato Palazzi
In oltre quarant’anni di professione ho sentito risposte anche peggiori a critiche negative: Ugo Volli, ad esempio, quando scriveva di teatro su “Repubblica” ricevette un pacco di feci da una nota attrice.
Nel mio caso, almeno, di maleodorante – come dice questo signore – c’è soltanto il tono intimidatorio che lui usa.
E’ sorprendente come, nel 2015, si faccia ancora ricorso a tutti i luoghi comuni di un vecchio armamentario squadristico: l’intellettuale stitico, magari da curare con un po’ di olio di ricino, il critico che ovviamente è uno scrittore (o un regista) fallito, l’ingiunzione a non mettere più piede in un teatro dove venga rappresentato uno spettacolo da lui prodotto.
Me ne farò probabilmente una ragione.
La sintesi dello spirito voltairiano di Barigelli è nella poca eleganza con cui cerca di far pesare la schiacciante sproporzione fra il giudizio di «un Palazzi qualsiasi» e quello del grande pensatore Zygmunt Bauman, che sarà anche «un filino più conosciuto e più stimato» ma da quanto mi risulta non ha visto lo spettacolo in scena al Teatro Franco Parenti.
Personalmente continuo a credere saldamente nel principio per cui le opinioni mie o di chiunque altro, se espresse civilmente, siano ugualmente rispettabili quanto quelle di Bauman.
Renato Palazzi
Gentile Renato Palazzi, ho visto lo spettacolo e, rispettosamente, non concordo con la sua recensione. Forse non avevo alte aspettative a priori (ad esempio non sapevo nulla dell’autore del testo: ammetto la mia ignoranza) e quindi non rischiavo di rimanere delusa. Fatto sta che trovo il testo tutt’altro che prevedibile. E la riflessione che vi è sottesa non è affatto banale. Il mito dell’ascesa sociale e il sogno americano, con i suoi miraggi e le sue disillusioni, sono un tema ancora attuale. Perciò alla sua domanda mi sento di rispondere: sì, tutto questo ci interessa ancora. E proprio il fatto che il testo sia stato scritto, oggi come poteva esserlo 40 anni fa può portare a ulteriori riflessioni: siamo tornati indietro? Oppure il realtà niente e cambiato? Come lei mi insegna, teatro serve anche a questo: a stimolare riflessioni. Non concordo poi per nulla sul giudizio che ha dato alle interpretazioni: io ho trovato tutti gli attori molto bravi e coinvolgenti. L’alchimia scenica è perfetta, il ritmo non perde un colpo. Infine non sono d’accordo con la critica alla presunta “sequenza-feuilleton”. Innanzi tutto, mi sembra che il testo affermi inequivocabilmente che Joyce (la figlia di Maggie) è nata prematura ed è frutto di una relazione successiva a quella tra lei e Mike: è l’amica di Maggie (non ricordo il nome del personaggio) a suggerirle di provare ad attribuire la paternità a Mike per interesse; quindi, a mio parere non c’è ambiguità su questo punto. In secondo luogo, non c’è bisogno di scomodare drammoni ottocenteschi e fotoromanzi per trovare donne che inguaiano uomini: succede tutt’ora nella realtà, anche nella nostra società e soprattutto nelle località di periferia e di provincia più degradate, come quella dove è ambientato “Good people”. E comunque a tema non c’è un “figlio della colpa” vero o presunto, ma l’ultimo, disperato tentativo di riscatto da parte di una donna che non ha avuto, dalla vita, le stesse opportunità di altre persone, che pure sono nate e cresicute nel suo stesso contesto sociale. Di questo parla lo spettacolo: del confronto impari tra sommersi e salvati. E mi sembra tutt’altro che banale. Cordialità.
Buongiorno!
Io ho visto lo spettacolo sabato 07 febbraio, mi sono divertita ed emozionata…
Quando uno spettacolo, una foto, un cartone animato e tanto altro…fanno emozionare perchè bisogna criticare?
Non sono appunto le nostre emozioni i migliori giudici?
Ho visto spettacoli che mi hanno lasciato anche dei vuoti, che per capirli ci ho ripensato giorni e giorni dopo averli visti…ed il fatto di pensare allo spettacolo mi da ragione, anche una cosa *sciapa* ti lascia qualcosa da pensare…..
Buon lavoro comunque a tutti
Ciao
ORi