Perduto Pinocchio

Perduto Pinocchio

È forte e insieme stranamente delicata l’idea alla base dello spettacolo di Krypton diretto da Virginio Liberti. Un Pinocchio quarantenne, stazzonato e disilluso, alle prese con la fatica di vivereRenato Palazzi


È partito da una bella idea, insieme forte e stranamente delicata, il regista Virginio Liberti per questo suo Perduto Pinocchio realizzato col Teatro Studio Krypton di Scandicci: ha fatto del personaggio di Collodi – che fin dalle origini è diventato uno dei più inquieti abitanti del nostro immaginario collettivo – l’emblema della metamorfosi, dunque anche di quella metamorfosi assoluta e inesorabile che la crescita, il destino – o la condanna – che impone all’uomo la fatica e l’angoscia del diventare adulti. E da adulto viene appunto colto Pinocchio, un quarantenne stazzonato, maltrattato dalla vita, ormai lontano nel tempo e nel sentimento non soltanto dal burattino di legno che era stato, ma anche dal bambino nel quale aveva sognato di trasformarsi.

Questo nuovo Pinocchio, così simile a noi, ha la barba un po’ incolta e veste casual, jeans sdruciti, una specie di eskimo, una cuffia di lana sulla testa. È seduto per terra, da solo, ai piedi di un divano privo dei cuscini, in una stanza che immaginiamo preda di un irrimediabile disordine,  prolungamento fisico del suo evidente disordine esistenziale. Sembra di intendere che paghi le conseguenze di una qualche dolorosa separazione, in seguito alla quale – come accade – si è fatto il vuoto intorno a lui: lamenta il progressivo abbandono da parte di amici e parenti, quei parenti che, quando era bambino, non si stancavano di compiacersi del racconto delle sue prodezze. Lamenta guai fisici e più squassanti smarrimenti emotivi. È turbato, insoddisfatto, forse depresso.

Deluso dalla sua esperienza di individuo in carne e ossa, vorrebbe tornare all’inebriante libertà che gli veniva offerta dall’antica condizione di creatura fantastica nata dalle mani di Geppetto. Vorrebbe incontrare il suo “babbo”, che lo aveva dotato delle mille risorse di un’identità fiabesca. Ma come ritrovare un impossibile accesso a quello straordinario passato? A soccorrerlo intervengono i vecchi compagni d’avventura: Mangiafoco, che appare in video col volto deformato di Giancarlo Cauteruccio per spingerlo a calarsi nei meandri della memoria, e tutti i mitici animali parlanti scolpiti per sempre dal talento visionario di Collodi anche in un’unica, fulminea battuta (come il pulcino col suo irridente «arrivederla, stia bene e tanti saluti a casa!»).

Sono loro, il grillo parlante, la lumaca, il gatto e la volpe – ridotti a buffe figurette proiettate su uno schermo, immagini animate dall’aspetto ambiguamente zoomorfo – a scortarlo in questa discesa nella psiche. Ma anche il ritorno agli incanti del passato si rivela più sofferto del previsto: vanesi, ansiosi di apparire a ogni costo, gli animali non gli consentono di ripercorrere il proprio cammino in piena autonomia. Gli si affollano nella mente, non gli lasciano respiro, si riuniscono persino in assemblea rivendicando – per bocca di una puntigliosa civetta – il loro diritto a essere tutti presenti senza eccezione, formando un’insostenibile polifonia. Le loro voci si accumulano e si sovrappongono finché l’uomo-Pinocchio crolla sopraffatto dal peso dei suoi stessi ricordi.

È dunque amaro, senza speranze e senza vere alternative, il punto di vista suggerito da Liberti in questo piccolo ma denso spettacolo, la cui apparente leggerezza scivola via via in un acre pessimismo, eloquentemente testimoniato dal paesaggio di teschi che si rivela alle spalle del protagonista. Drammaturgicamente mi è parsa più personale e graffiante nella scrittura la prima parte, quella in cui si delinea una tormentata quotidianità fatta di affetti mancati, di bugie raccontate soprattutto a se stesso, della dolorosa percezione da parte dell’io-narrante di essere ostaggio del proprio cinismo. La seconda parte diverte con quei delfini saccenti, quei tonni filosofi («è più dignitoso finire sott’acqua che sott’olio») ma risulta a lungo andare un po’ prevedibile e ripetitiva.

Le stesse considerazioni, per certi versi, si potrebbero applicare all’interpretazione di Tommaso Taddei, che è efficacissima, ma adotta due chiavi espressive diametralmente diverse, molto più diverse di quanto non sembri: nel lungo itinerario fra le sue infelicità e delusioni di uomo “normale” è molto reale, molto credibile e vero e persino sincero (nel senso, almeno, che riesce a portare in luce la sincerità dell’autore): non ha l’aria di recitare, parla in un modo che colpisce e coinvolge, comunica qualcosa che tanto o poco ci appartiene. Quando tenta di tornare a essere Pinocchio, attraversato e posseduto dagli echi della sua precedente natura, fa invece palesemente teatro, cede quasi alla tentazione del pezzo di bravura, e allora lì in qualche modo si banalizza.

Ma il principale limite del testo è che si chiude bruscamente, manca di un finale, e non soltanto in senso tecnico. Credo che il personaggio, una volta indicate le due opposte strade che gli si presentano, quella di un presente che lo ferisce e di un passato che lo opprime, non possa sottrarsi alla propria responsabilità: deve comunque scegliere, deve indicare da che parte vuole stare, perché in mezzo non c’è nulla se non il limbo dell’incompiutezza, il vuoto di una coscienza eternamente sospesa.

Visto al Teatro i di Milano

Perduto Pinocchio
testo e regia di Virginio Liberti
scene: Loris Giancola
costumi: Massimo Bevilacqua
video: Alessio Bianciardi
audio: Marco Cardone
con Tommaso Taddei
voci: Daria Balducelli, Laura Bandelloni, Massimo Bevilacqua, Alessio Bianciardi, Marco Cardone, Giancarlo Cauteruccio, Rossana Gay, Loris Giancola, Massimo Grigò, Pina Izzi, Anna Giusi Lufrano, Alessio Martinoli, Ciro Masella, Francesco Pennacchia, Carlotta Rovelli, Carlo Salvador, Emiliano Terreni.