Santa Impresa

La Santa Impresa di Laura Curino & Anagoor

Sfruttando la sua proverbiale abilità nel trasformare in avvincente narrazione temi e argomenti apparentemente poco adatti, l’attrice ricostruisce le vite dei “santi sociali” piemontesi come don Bosco. Con la regia bella, nitida e curatissima di Simone DeraiRenato Palazzi


Sono andato con una certa riluttanza al Teatro Gobetti di Torino ad assistere al debutto di Santa Impresa, lo spettacolo su Don Bosco e sugli altri “santi sociali” piemontesi che gli Anagoor hanno realizzato con Laura Curino. Temevo un po’, francamente, questo confronto del gruppo con una materia ostica, che mi sembrava aver poco a che fare col suo linguaggio, con la sua storia attuale. E temevo il nuovo incontro di Simone Derai e dei suoi compagni con un’attrice sui generis come la Curino, che è stata la loro maestra e prima ispiratrice, ma che incarna un’idea di teatro non so quanto consona a ciò che gli Anagoor sono oggi diventati, al genere di temi che sono soliti affrontare.

Il risultato è solo in parte rassicurante: Santa Impresa è senza dubbio uno spettacolo interessante, e realizzato con estremo rigore. Mi aspettavo storie edificanti di orfanotrofi, di artigianelli, di case della madre e del fanciullo. Prevale invece, per fortuna, un affresco più ampio e articolato, l’inedito ritratto, anche piuttosto cattivo, di una Torino ottocentesca per nulla innocente e pia, dove le anziane domestiche – anziane per modo di dire: si parla di cinquantenni – che non stuzzicavano più le voglie dei loro datori di lavoro venivano cinicamente scaricate, dove abbondavano i figli illegittimi, i neonati affidati alla ruota, e dove le poverette che avevano la sventura di contrarre la sifilide finivano dritto all’ospizio celtico.

L’aspetto più affascinante di questo excursus nelle vite impetuose dei vari don Bosco, Giuseppe Cafasso, Giuseppe Cottolengo è nel fatto di cogliere nel loro attivismo a favore dei derelitti i riflessi di una fase di straordinaria accelerazione della storia: le ghigliottine della Rivoluzione Francese erano state da poco lasciate alle spalle, e la società piemontese veniva scossa da un incontenibile fermento in cui convergevano le iniziative caritatevoli, le tensioni della nascente civiltà industriale – in cui a mutare non era solo il quadro economico, e i ritmi della fabbrica sembravano influenzare le coscienze stesse – e le passioni risorgimentali, le aspirazioni a creare una nuova identità nazionale.

Lo spettacolo rivela personalità sfaccettate, come Francesco Faà di Bruno, ufficiale, scienziato, matematico di fama, ordinato sacerdote a cinquant’anni, o la marchesa Giulia di Barolo, patriota, viticoltrice, inventrice del famoso vino e instancabile animatrice di interventi assistenziali: il racconto del trasferimento delle detenute dal vecchio al nuovo carcere su carrozze dorate messe a disposizione dalle famiglie aristocratiche, da lei coinvolte per evitare a queste donne l’imbarazzante esibizione delle proprie miserie, è un bel pezzo di teatro. Sorprendentemente, inoltre, di tutti questi grandi benefattori mette in luce l’intraprendenza imprenditoriale più che la pietas: promuovevano riforme sociali, fondavano mense economiche, scuole per sordomuti, ospedali dove introducevano metodologie innovative.

Detto questo, va precisato che Santa Impresa non è uno spettacolo degli Anagoor con Laura Curino. È uno spettacolo di Laura Curino con la regia – bella, nitida, curatissima – di Simone Derai. Non c’è, insomma, una vera contaminazione stilistica: Derai ci mette un’asciutta, limpida gestione dello spazio, una scena bianca, luminosa arredata solo con un enorme lampadario rettangolare di foggia un po’ industriale, un tavolo, una scaletta e un grande schermo che si apre sul fondo come una finestra. Gli Anagoor in quanto tali ci mettono splendidi video in bianco e nero, immagini di macchinari, di aule scolastiche, di oratori, di ragazzi che giocano al pallone col parroco, e le suggestive musiche di Mauro Martinuz. Ma di tutto il resto si fa carico l’attrice.

È lei, con un curioso abito talare e un’acconciatura vagamente maschile, ricalcata sull’iconografia di quei preti d’altri tempi, a dare linfa a un racconto che altrimenti rischierebbe di risultare piuttosto statico, lei che moltiplica come al solito le voci e i punti di vista. Spicca anche qui quella sua personale capacità di vivificare argomenti all’apparenza lontanissimi da qualunque vibrazione teatrale, di rendere lieve e per così dire partecipato anche ciò che potrebbe risultare rigidamente didascalico, come se le figure di cui parla fossero parte di una sua privata biografia. A rompere questo schema confidenziale, di tanto in tanto si mette a leggere brani di scritti dell’epoca, ed essi non contrastano con l’immediatezza della sua narrazione, anzi la arricchiscono.

Le vicende trattate sono ovviamente quel che sono, sarebbe vano pretendere di affrontarle da una prospettiva completamente laica. Se gli autori sono riusciti a sfrondarne gli eccessi agiografici, non altrettanto agile e funzionale si dimostra la struttura del testo, che non si libera mai del tutto da una certa macchinosità e ridondanza. Due ore di spettacolo sulle spalle di una sola attrice non sono poche, e richiederebbero un ritmo molto serrato. Si è scelta invece una costruzione drammaturgica scandita sui tempi del Genesi biblico, idealmente divisa in sette giornate: ma questo andamento per blocchi simbolici, senza seguire una successione logica, sovrappone e confonde i tempi degli avvenimenti, procede e torna indietro con un effetto ripetitivo, a volte inutilmente faticoso.

Visto al Teatro Gobetti di Torino. Repliche fino al 7 giugno 2015

Santa Impresa
di Laura Curino e Anagoor
con Laura Curino
regia: Simone Derai
progetto scenico: Anagoor
luci: Lucio Diana
musiche: Mauro Martinuz
ideazione video: Anagoor e Giulio Favotto
ideazione e realizzazione costumi: Federica De Bona e Silvia Bragagnolo
progetto drammaturico: Laura Curino e Simone Derai
assistente alla regia: Marco Menegoni
assistente alla drammaturgia: Beatrice Marzorati