Non correre Amleto

Il nuovo testo di Francesca Garolla riflette su un tema impegnativo come la morte e lo fa con esiti raffinati ma un po’ fragili. Maiuscola prova di Elena Ghiaurov e Milutin DapčevicRenato Palazzi


Per il suo nuovo testo, Francesca Garolla – forse confortata dai recenti successi francesi – ha scelto un tema impegnativo, quello dell’acre e dolorosa riflessione sulla morte. E ha scelto per giunta, nell’affrontarlo, un taglio ancora più arduo e delicato, che riguarda la straziante ricerca di qualcosa che non si può trovare, di un impossibile senso da attribuire alla morte, una ragione purchessia con cui spiegarsi una fine insensata, cercando di trovarle una qualche nobile giustificazione. È un problema, come si può facilmente immaginare, che tocca i vivi, quelli che restano e non riescono ad accettare la scomparsa di un loro caro. Gli altri, i morti, la casualità, l’assoluta futilità della propria dipartita l’hanno compresa e accettata nell’istante stesso in cui essa è avvenuta.

L’azione è sviluppata come un dialogo fra due personaggi, un uomo e una donna, che parlano come da soli, in un confronto sfasato, condividendo uno stesso spazio che tuttavia è diviso a metà da una bassa fila di mattoni. La donna parla di un episodio realmente avvenuto anni fa, protagonista uno zio dell’autrice. È la storia di un convoglio umanitario attaccato in Bosnia, nel ’93, con a bordo cinque volontari, costretti a scendere: uno di loro resta fermo, gli altri tentano di fuggire. Due si salveranno rifugiandosi nei boschi, tre verranno abbattuti, primo fra i quali quello rimasto fermo, che è appunto lo zio. Forse, se i suoi compagni non si fossero messi a correre, lui si sarebbe salvato. Ma chi lo può dire?

Attraverso questo drammatico ricordo famigliare reso via via sempre più esplicito, però, la donna sembra voler andare affannosamente col pensiero a un’altra un’altra morte stupida e casuale, una morte che però non riesce a nominare, a riconoscere come tale. L’uomo, invece, a pochi passi da lei, ma parlando come da un’infinita distanza, manovra con disinvoltura delle mazze da golf, ostenta un ironico distacco dai turbamenti di lei, e pare persino irridere quel suo convulso interrogarsi. È vestito di bianco e ha un aspetto strano, il volto pallido, lo sguardo un po’ assente, i capelli come acconciati in un’incongrua pettinatura femminile.

Forse entrambi sono morti, sono fantasmi. Forse è morto uno solo di loro, ma quale sia dei due verrà chiarito solo verso la fine. La scrittura della Garolla è elusiva, trasversale. Lo scambio di battute corre sul filo di un non-detto, vive tutta di questa verità continuamente rimandata. Per complicarsi un po’ il compito, l’autrice costruisce questo suo Non correre Amleto sull’indiretta falsariga di alcune situazioni del capolavoro shakespeariano. Non si tratta mai di richiami espliciti, ma di citazioni, di allusioni poste come didascalie all’inizio delle varie scene: «Il tempo è scardinato» dimostra come la morte diventi tale solo quando altri ne vengono a conoscenza. In «Essere o non essere» si decreta che qualcuno c’è, qualcuno non c’è più, senza possibili alternative, come dice l’uomo. Nell’ultima, «Orazio, racconta la mia storia», viene sancito che la storia raccontata non è quella dei morti ma dei sopravvissuti, che la interpretano dal proprio punto di vista.

Il testo è raffinato, intelligente ma un po’ fragile: avendo un andamento volutamente sfuggente, sembra a tratti restare in surplace, si ripete. Il suo nucleo poetico esce però, alla distanza, con la necessaria intensità. E l’angosciosa ricerca conclusiva, da parte della donna, di un perché, di un appiglio che la aiuti a non considerare la morte di chi amava come il mero risultato di una sciocca distrazione, magari figurandosi che egli abbia sacrificato la propria vita anche solo per salvare un cane o un gatto, è davvero squassante. L’elegante regia di Renzo Martinelli gli aggiunge echi misteriosi, puntando su un clima rarefatto e soprattutto – come in Magda e lo spavento – su dei suggestivi effetti sonori che amplificano le voci e i rumori, conferendo loro un alone metafisico.

Ma a reggere lo spettacolo è soprattutto la maiuscola prova dei due protagonisti. Elena Ghiaurov è magnifica: recita con la voce, col corpo, con gli occhi, penetra in ogni piega di quel suo non-personaggio. Quanto più sembra attingere a intonazioni astratte, tanto più riesce a caricarle di un inusitato spessore di sentimenti. Le sue doti interpretative sono note da tempo, ma qui ci aggiunge qualcosa di più denso e avvincente, come una luce interiore, una segreta vibrazione personale. Milutin Dapčevic – lo si sapeva – è a sua volta un attore dal talento incontenibile, quasi alle soglie del virtuosismo. Lui lavora, in qualche modo, su ogni parola che pronuncia: con apparente leggerezza, riesce a svuotarla del suo significato originario e a conferirle tutta una gamma di diversi contenuti. Vederli in scena insieme è un’occasione da non perdere.

Visto al Teatro i di Milano. Repliche fino al 19 ottobre

Non correre Amleto
di Francesca Garolla
regia: Renzo Martinelli
con: Elena Ghiaurov e Milutin Dapčevic