Lola che dilati la camicia

Lola che dilati la camicia

Bene ha fatto il Teatro dell’Elfo a riproporre questa pièce che dal 1996 a oggi, grazie anche alla costanza delle interpreti e in particolare di Cristina Crippa, ha mantenuto intatta la sua provocatoria tenerezza e il suo pudico sentimentoMaria Grazia Gregori

È raro che uno spettacolo conservi nel corso degli anni intatta la sua provocatoria tenerezza, il suo pudico sentimento, il suo messaggio (parola ormai quasi priva di senso, ma non in questo caso) spiazzante e inquietante allo stesso tempo. Lola che dilati la camicia che è in scena, a intervalli più o meno lunghi, dal 1996 fa piazza pulita di queste false certezze, delle nostre facili ovvietà, la forza della sua denuncia colma di pietà e di orrore, la rabbia che ci prende alla fine credo siano identiche oggi come allora. Hanno fatto bene Teatridithalia a riproporcelo nella sua integrità, a crederci ancora. Gli danno ragione anche gli spettatori che affollano la Sala Fassbinder con grande tensione (mi dicono che è così tutte le sere) coronata alla fine da un applauso liberatorio per uno spettacolo vissuto con una partecipazione totale.

Capisco quando mi si dice che non può essere fatto che con le attrici che l’hanno portato in scena la prima volta, che sono cambiate e “cresciute” insieme a lui pur avendo fatto altre e talvolta importanti esperienze interpretative. Bisogna crederci, certo, e Cristina Crippa e Patricia Savastano ci hanno creduto: anzi l’hanno “scelto”.

Lo spettacolo nasce da una scoperta che rivela la violenza, l’orrore subito da una donna  giovane e bella, Adalgisa Conti, entrata nel manicomio di Arezzo a soli 26 anni nel 1913 e lì rimasta degradandosi a poco a poco fra gesti estremi come truccarsi con le feci o con il mestruo per ribellione e disperazione contro l’orrenda macchina che la stava stritolando fra prevaricazioni  ed elettroshock, e conoscendo ormai novantenne, alla fine della sua vita, dopo la rivoluzione di Franco Basaglia,  la pulizia e la relativa serenità di un “manicomio liberato”.

L’artefice della scoperta è stato Luciano Della Mea, fratello di Ivan, in quegli anni Settanta ricercatore per il CNR che, studiando le cartelle cliniche nel manicomio d’Arezzo, si trova di fronte il faldone di Adalgisa Conti con delle lettere da lei scritte ai familiari, al marito, al medico che l’ha in cura, per lei simbolo dell’autorità maschile, al quale indirizza, sperando di essere compresa e aiutata, una folgorante autobiografia “gentilissimo signor dottore questa è la mia vita”. Partendo da questo scoperta, Luciano Della Mea cura per i tipi di Mazzotta  nel 1978 “Manicomio 1914” poi ristampato nel 2000 da Jaca Book  con il titolo “Gentilissimo signor dottore, questa è la mia vita”, sottotitolo “Manicomio 1914”, con in appendice la drammaturgia tratta dal libro da Marco Baliani che ne ha curato anche la regia, Cristina Crippa e Alessandra Ghiglione e alcune foto dello spettacolo.

Il testo ci restituisce l’infanzia, l’adolescenza non facile, le precoci pulsioni erotiche, il matrimonio che si rivela deludente sia sul piano sentimentale che sessuale, il desiderio di trasgressione e il conseguente bisogno di autopunirsi: una donna non in linea con il proprio tempo che sa scrivere, considerata non rieducabile, ribelle, fastidiosa, strana, di cui liberarsi a ogni costo come faranno il marito e la sua famiglia. E lì dentro altre umiliazioni, le docce gelate, la medicina che instupidisce, gli elettroshock, le feci e il mestruo  usati come trucco come gesto estremo di ribellione. Una donna annullata, una donna spezzata. In una semplicissima scena lignea di Carlo Sala, con scalini da scendere per precipitare dentro i gironi infernali di quella non vita Cristina Crippa e Patricia Savastano vivono momento dopo momento le stazioni di una passione laica fra romanze e canzoni d’epoca come se fossero un unico personaggio diviso in due: uno che vive visceralmente, disperatamente la propria tragica storia (Cristina Crippa che con lacerante immedesimazione è Adalgisa), l’altro che guarda quasi da fuori, sottolineando con gesti e parole il tormento della vittima (una sensitiva Patrica Savastano). Fra le due interpreti si intesse una fitta tela di piccoli gesti che hanno a che fare con il quotidiano ed è qui che si è puntata l’attenzione della regia sensibile di Marco Baliani anche se credo che, dopo tanto tempo, ogni gesto, ogni azione, ogni sguardo delle due attrici, faccia parte di una storia quasi privata, legata alla loro vita.

Visto al Teatro dell’Elfo di Milano. Repliche fino al 21 giugno 2014