Il trentanovenne autore alessandrino sfoggia una straordinaria qualità di scrittura, un talento compositivo al limite del virtuosismo. Nessuno, in Italia, sa costruire un dialogo come lui – Renato Palazzi
I vicini, il nuovo spettacolo di Fausto Paravidino, ricalca il tema di tanti thriller, di tanti film del terrore e del mistero: non bussate a quella porta, non varcate quel pianerottolo, non cedete alla curiosità di scoprire qualcosa di più sui nuovi vicini di casa. O forse, come dice l’autore, è più semplicemente uno spettacolo sulla paura tout court, la paura di ciò che non conosciamo, inspiegabile, irrazionale, la percezione dell’estraneo come ignota minaccia che penetra proprio là dove crediamo di poterci ritenere al sicuro, nel nostro rifugio, nella tana, nella caverna primordiale.
Il protagonista, indicato soltanto come Lui, ovvero l’emblema di una certa tipologia maschile – o più narcisisticamente l’altra faccia dell’Io, il “doppio” dello stesso Paravidino, che lo interpreta – è un eterno adolescente incapace di crescere, forse senza occupazione, sempre a casa in pigiama, il che gli dà un aspetto stranamente inerme, infantile. La sua compagna, Greta, non ha invece nulla di infantile, lei (con la elle minuscola) probabilmente lavora, esce, gira, ha qualcosa da fare. Come tutte le ragazze, è palesemente più aperta e matura.
Nell’appartamento accanto sono arrivati dei nuovi inquilini. Lui li osserva dallo spioncino della porta, ne ascolta i movimenti, ne ha oscuramente paura. Greta, invece, è incuriosita da loro, vorrebbe familiarizzare, mentre ha paura di una vecchia che vede di notte, e che scambia all’inizio per la sua nonna, apparsa in sogno, e poi invece si rivelerà la precedente vicina, morta da tempo. I timori di entrambi non risulteranno infondati: il fantasma, in effetti, esiste e si manifesta, anche se i due non riusciranno a capire ciò che dice. E i vicini, a loro volta, si comporteranno in modo insolito, niente affatto rassicurante, si insinueranno sempre più nei loro equilibri di coppia, li attireranno in un’ambigua e sospetta intimità.
Chiara, la donna, si presenterà a Lui in camicia da notte, lo stuzzicherà, lo tenterà, poi mostrerà dei bizzarri crolli nervosi, crisi isteriche, svenimenti. Il Marito di Chiara (anch’egli non ha nome, incarna un puro archetipo), spesso in mutande o in vestaglia, sembrerà invece interessato a Greta, sfoggerà atteggiamenti da bullo, sfiderà Lui, lo provocherà per causarne le reazioni, pretendendo di insegnargli a comportarsi da uomo. E di fatto Greta e Lui cambieranno, si invertiranno i ruoli, l’una si scoprirà più fragile, insicura, l’altro più rissoso e aggressivo.
Grazie anche alle sue esperienze cinematografiche, Paravidino gioca con grande abilità sugli elementi di suspence, sulle sensazioni di allarme per un pericolo incombente, sulla capacità di suscitare nello spettatore l’impressione – o l’aspettativa – che in ogni istante possa accadere qualcosa. Mescolando, in un sapiente montaggio di situazioni, l’ironia e lo spavento, porta l’azione a un punto tale di tensione che bastano dei colpi battuti violentemente alla porta, o l’improvviso comparire in scena di un personaggio, per suscitare davvero qualche piccolo sobbalzo.
Come sempre, il trentanovenne autore alessandrino sfoggia una straordinaria qualità di scrittura, un talento compositivo al limite del virtuosismo. Nessuno, in Italia, sa costruire un dialogo come lui (con la elle minuscola). Il suo limite, se vogliamo, sta proprio in quell’eccesso di bravura, che lo porta quasi ad annullarsi in una tecnica drammaturgica sopraffina. È comunque una scrittura fortemente mimetica, che lo porta ad assimilare bulimicamente i modelli stilistici più diversi: ci sono dieci minuti – quelli in cui disserta con Chiara su Dio – che sono puro Woody Allen, ci sono perturbamenti e soprassalti dell’inconscio alla Polanski, c’è un’atmosfera complessiva che rimanda direttamente a Pinter.
Cosa poi davvero voglia dirci Paravidino – al di là dell’ovvia constatazione che solo aprendoci agli altri possiamo crescere, prendere coscienza di noi stessi – non è del tutto chiaro, e lo scioglimento finale da parte del fantasma non sembra fornire spiegazioni illuminanti. Ma lo spettacolo, di cui firma anche la regia, diverte e incuriosisce, non lascia mai cadere l’attenzione. Lo stesso Paravidino è bravo nei panni di Lui, ottimamente affiancato dalla sua abituale compagna di scena, Iris Fusetti, da Sara Putignano e Davide Lorino, gli invadenti vicini, un po’ buffi e un po’ inquietanti, e da Monica Samassa nei panni della vecchia.
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Repliche fino al 15 febbraio 2015. Foto di Mario D’Angelo
I vicini
testo e regia di Fausto Paravidino
scene: Laura Benzi
costumi: Laura Cardini
luci: Lorenzo Carlucci
musiche: Enrico Melozzi
produzione: Teatro Stabile di Bolzano
con: Fausto Paravidino, Iris Fusetti, Sara Putignano, Davide Lorino, Monica Samassa
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