Il “Cappuccetto rosso” di Joël Pommerat, direto da Sandro Mabellini, colpisce per il linguaggio asciutto e preciso. Una commistione senza sbavature di maschere, gesti, luci ed effetti sonori – Renato Palazzi
Se non vi lasciate scoraggiare dal tema “infantile” e dall’esigua misura di questo piccolo spettacolo, non perdetevi il Cappuccetto rosso di Joël Pommerat allestito con gusto e intelligenza da Sandro Mabellini. Il testo, una moderna riscrittura della fiaba di Perrault, assunta a emblema del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dice quello che deve dire sulle suggestioni psicanalitiche della vicenda, sui suoi inquietanti risvolti simbolici senza cadere nella banalità di esplicitare il tutto, mantenendosi sul piano di un puro gioco allusivo. E la messinscena è raffinata, precisissima, piena di trovate malgrado il taglio spoglio, essenziale. Mabellini è reduce dal successo di Road movie, il monologo di Godfrey Hamilton presentato all’Elfo Puccini, ma questo Cappuccetto rosso è a mio avviso registicamente più interessante.
Uomo di teatro a tutto campo, artefice in senso pieno delle sue creazioni, il cinquantaduenne Pommerat è a quanto pare l’autore francese del momento, presente un po’ ovunque sulle ribalte del suo paese. La reinterpretazione contemporanea delle grandi storie popolari, da Cenerentola a Pinocchio, costituisce uno dei nuclei portanti della sua ispirazione, non il solo, visto che i suoi testi spaziano dallo spaccato storico alla riflessione politica e sociale. Cappuccetto rosso, nella versione da lui diretta, era arrivato nel 2011 al festival Romaeuropa, mentre la sua Cenerentola approderà il prossimo aprile al Teatro Strehler di Milano. Proprio Cenerentola era stata la prima opera di questo autore affrontata con coraggio e lungimiranza due anni fa dallo stesso Mabellini.
Cappuccetto rosso ha una struttura semplice, lineare: c’è un narratore, forse un padre che racconta la fiaba alla sua bambina. E quest’ultima diventa via via la protagonista, una figlia un po’ trascurata dalla mamma, ansiosa di uscire per la prima volta di casa da sola, e diventa la nonna, mentre l’attrice che dà corpo alla madre, e che si diverte a incarnare le paure della piccola, assume anche quasi naturalmente le sembianze del lupo. Ma questa distribuzione delle parti resta sempre fluida, sospesa, i ruoli famigliari e quelli fiabeschi si sovrappongono di continuo, non senza sottili ambiguità, perché crescere è anche una progressiva percezione delle proprie pulsioni sessuali. Alla fine le tre generazioni si avvicendano, la figlia assume le funzioni che erano della madre, e costei presumibilmente quelle della nonna, mentre il lupo continua a impersonare il timore e l’attrazione dell’ignoto.
L’ asciuttissimo spettacolo, in pratica, non fa che dare un’agile sostanza alle mutevoli relazioni fra queste tre figure – al di fuori delle quali, all’apparenza, non c’è altra realtà, non c’è altra vita – inquadrandole come sul vetrino di un microscopio, cogliendole nei loro precari equilibri. Al centro del palco quasi del tutto vuoto è soprattutto il narratore, l’ottimo Riccardo Festa, a imporsi come elemento trainante di una rappresentazione rivolta tanto agli adulti quanto ai bambini: parla, descrive, commenta, manovra oggetti, entra ed esce senza sosta dall’azione, usa a volte il microfono, altre volte la sua voce naturale, e attraverso l’amplificazione produce un sottofondo di suoni e rumori.
Le due attrici, Caroline Baglioni e Cecilia Elda Campanini, per lungo tempo si limitano a tradurre in gesti le sue parole, poi cominciano a “entrare” a loro volta gradualmente nei personaggi, a pronunciarne le battute, ma sempre come prendendoli dall’esterno, servendosi anche di maschere bianche, stilizzatissime, e sommari accenni di costume indossati “a vista”. Maschere, gesti, luci, effetti sonori formano una specie di scarna partitura, una serrata trama acustica e visiva realizzata con cura impeccabile, senza una sbavatura, senza un dettaglio fuori posto. Ed è proprio questo linguaggio che sembra costruirsi passo passo a determinare il fascino principale dell’insolita performance.
Visto allo Spazio Tertulliano di Milano. Repliche fino all’8 marzo
Cappuccetto rosso
di Joël Pommerat
traduzione: Federica Iacobelli
uno spettacolo di Sandro Mabellini
costumi: Chiara Amaltea Ciarelli
con: Riccardo Festa, Caroline Baglioni, Cecilia Elda Campani
produzione esecutiva: La Città del Teatro
Una delle attrici si chiama Cecilia Elda Campani – come da locandina in calce – e non “Campanini” com’è riportato in grassetto nella recensione.