Sonia Bergamasco

Sonia balla da sola

Quanto c’è della Bergamasco nel “Ballo” di Irène Némirovsky? La domanda rimane giustamente sospesa, mentre l’attrice ci regala un saggio della sua bravura muovendosi con musicalità in un viaggio omirico a più vociMaria Grazia Gregori


È un labirinto di specchi, che riflettono da diverse angolature l’immagine di una donna sola, che va alla ricerca dei suoi fantasmi, dei suoi personaggi anzi soprattutto di quel momento segreto, in cui i personaggi escono dalla loro crisalide e si affacciano alla mente dello scrittore e “vogliono” vivere un’esperienza quasi misteriosa che è forse il culmine della creazione, il suo senso più profondo. È un viaggio, un sogno (ma forse no), costellato da tante nascite e tanti suicidi, da tante apparizioni e sparizioni, da tante voci e tanti gesti, come nei giochi di bambini dove basta una sedia per inventarsi un mondo.

Nel mondo di Sonia Bergamasco, attrice di una sensibilità e di un’intelligenza rare e dotata di un talento imperioso, premio Duse 2014, non solo attrice ma anche pianista e poetessa di rara purezza, abituata dunque per scelta a ragionare, a muoversi, a parlare su scala musicale, questo mondo – all’apparenza solitario ma popolato di infinite voci, che l’assediano -, la trasforma in maschera e megafono di questi incontri, di queste paure, di queste vite. Il ballo, di Irène Némirovsky, attualmente in scena con grande successo al Teatro Franco Parenti di Milano, è di questo viaggio, certamente il momento più alto, il più complesso e commovente.

Il ballo è un racconto lungo pubblicato dalla Némirovsky nel 1928 che è possibile leggere d’un fiato nelle edizioni Adelphi, un racconto perfetto in cui l’autrice ucraina, morta ad Auschwitz a soli trentanove anni, dimenticata dopo essere stata famosissima e ritornata alla notorietà, tutta meritata, con il nuovo secolo, racconta con una forte valenza autobiografica di una giovane ragazza in fiore, la quattordicenne Antoinette, di una famiglia di arricchiti ebrei che vivono a Parigi, di una madre che smania per entrare nell’alta società con un evento che dovrebbe coronare la resistibile ascesa del marito banchiere con un grande, elegantissimo ballo dove sfoggiare i suoi gioielli. La ragazzina che sognerebbe di avere un bel vestito e di partecipare anche per poco a questa festa di grandi, ne viene esclusa: un’esclusione che è un dolore grande e che innesta una voglia di vendetta quando si presenta l’occasione: così gli eleganti bigliettini di invito non verranno mai spediti, saranno gettati nel fiume, la festa non ci sarà, i genitori crederanno di essere stati snobbati con una ferita irreparabile alla loro immagine sociale, la ragazzina avrà la sua vendetta destinata a rimanere nascosta e tutti precipiteranno nell’anonimato. Un testo magnifico, impietoso: per trovarne uno altrettanto crudele sia pure in modo più drammatico mi viene in mente La signorina Else di Arthur Schnitzler anch’esso come questo giocato attorno ai falsi riti di una borghesia senza ideali.

Sonia Bergamasco lo fa suo questo racconto, arricchendolo di pensieri e di suggestioni: all’inizio è una figura indistinta, sdraiata su di una dormeuse, coperta da una specie di cellophane bianco. È un essere che si risveglia, che rompe questo diaframma, questa placenta che la separa da noi. E le prime parole che ci dice sono romanticamente tratte da due Odi di John Keats, dove si dice che la Bellezza è Verità e che la Verità è Bellezza: un viatico ironico per una vicenda costruita sulla menzogna sociale e su quella familiare. Inquieta, come posseduta, con indosso quello che una volta si chiamava “pigiama palazzo” bianco, l’attrice si muove dentro il suo labirinto di specchi, che libera dal cellophane, si china su di uno specchio come se fosse Narciso e lo interrogasse con amore e timore di una risposta che non ci sarà. Ed eccola come posseduta dalle voci, dai gesti, dalle parole dei personaggi, diversi, inquieti ognuno che si annuncia con un segnale particolare: il ticchettio di un metronomo, un allarme misterioso a cui non si sa dare un nome, ma che ci inquieta, il suono di un carillon… Su tutto e tutti un valzer smemorato (ma anche il charleston) che scandisce a tempo l’andare e venire dei cinque personaggi rappresentati: Antoinette, sua madre e suo padre, la cugina pianista invidiosa e pettegola, la signorina che dovrebbe insegnarle non solo le buone maniere ma anche l’inglese.

Il tutto sostenuto da una galleria di voci, di gesti, una gamma vocale stupefacente dove i personaggi, usciti dalla crisalide che li rinchiudeva, diventano vivi per poi figurativamente quasi “suicidarsi” tornando nell’ombra. Perché se è vero come è vero che Némirovsky ha raffigurato se stessa in questa storia di familiare disamore quanto di Sonia c’è nella storia raccontata da Nemirovsky? Domanda che giustamente rimarrà senza risposta, una bellissima intuizione da parte dell’attrice, uno spettacolo in prima persona, un “racconto di scena”, ideato e interpretato da lei con la sua bellezza bionda fuori dagli schemi, la sua apparente fragilità – in realtà è durissima -, con il suo talento e la sua inquietudine. Da vedere.

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Repliche fino al 22 marzo 2015

Il ballo
racconto di scena ideato e interpretato da Sonia Bergamasco
liberamente ispirato a Il ballo di Irène Némirovsky
disegno luci Cesare Accetta
scena Barbara Petrecca
costume di scena Giovanna Buzzi
elettricista Domenico Ferrari
produzione Teatro Franco Parenti / Sonia Bergamasco
un ringraziamento a Le vie del Festival