L’idea di affidare le sorti di un’opera a un artista di fama non sempre si è rivelata vincente, fin dai contestati manichini di De Chirico per i Puritani del 1933 al Maggio. A Venezia ha funzionato solo in parte la regia della statunitense Kara Walker e non ha brillato neppure la direzione di Gaetano d’Espinosa. Generosa prova dei cantanti – Duccio Anselmi
Mettere in scena un’opera come Norma non è una passeggiata per nessun teatro, tanto più in momenti come questi, in cui è davvero difficile poter parlare di grandi interpreti in circolazione. Nessuno si illude di ritrovare le Callas, le Caballé o le Sutherland del bel tempo che fu, certo è che i tentativi di abbordare un ruolo al top dei sogni sopranili – come potrebbe esserlo Otello per i tenori – vede sempre più operazioni di compromesso tra vocalità impari alla parte e personalità non sempre all’altezza delle richieste espressive di uno dei più complessi personaggi del melodramma preromantico. Senza contare che nel capolavoro di Bellini la protagonista non basta a fare l’asso pigliatutto ma ci vogliono altri tre fuoriclasse nel cast vocale, un direttore sensibile alle esigenze belcantistiche e possibilmente un regista illuminato.
Alla Fenice di Venezia le premesse per allestire una nuova edizione di Norma vertevano principalmente sull’idea di affidare la messinscena ad una famosa artista americana, Kara Walker, interprete di tematiche di tipo razziale, sessuale e di violenza. La sua idea di trasportare la Gallia in Africa e di trasformare i Druidi in una tribù di pelle bianca, non più sottomessa ai romani ma all’invadenza di esploratori colonialisti, poteva anche avere una sua curiosità se solo l’operazione non si fosse fermata ad un’arbitraria scelta di puro gusto estetico. Se sul piano visivo i fondali africani della Walker potevano avere un indubbio impatto, è sul piano registico che il suo contributo ha mostrato il fianco, non facendo emergere una chiarezza di idee. I suoi costumi, gonfiati nelle curve dei fianchi per le donne e trasformati in imbarazzanti sottanoni rossi per gli uomini, avrebbero fatto pensare ad un’inaspettata lettura caricaturale, ma in realtà la cosa si è fermata lì come anche la recitazione dei personaggi, relegata ad una perpetua immobilità frontale quanto slegata da qualsiasi logico collegamento con il libretto (dove sono finiti i “pargoletti” in “Mira, o Norma”?). Risultato in definitiva zoppicante, come spesso è capitato a quegli spettacoli in cui l’idea di affidare le sorti di un’opera ad un artista di fama non sempre si è rivelata vincente, dai contestati manichini di De Chirico – per i Puritani al Maggio Musicale Fiorentino del 1933 – in poi.
Ma anche sul piano musicale le cose non sono sempre andate al meglio, nonostante la bontà delle scelte artistiche. Già dalla sinfonia, la direzione di Gaetano d’Espinosa ha mostrato una certa pesantezza fonica, per altro non necessaria in una sala fortemente acustica come quella della Fenice e tutt’altro che appropriata stilisticamente, pur manifestando un’apprezzabile fluidità nel legato strumentale e una buona tenuta esecutiva dell’orchestra e del coro veneziani.
Per altro questo robusto supporto sonoro non si confaceva alla vocalità tutt’altro che potente della protagonista, una Carmela Remigio già alle prese con un ruolo al limite delle sue possibilità. Smessi i panni di Adalgisa – che nella versione per due soprani l’aveva vista interprete ideale ad Ancona e a Bologna – la Remigio con Norma forse ha fatto il passo più lungo della gamba. Da ottima professionista qual è, ha cantato ogni nota e anche i passaggi più scabrosi senza compromessi e con la musicalità di sempre. Ma difficilmente potremmo ricordare un fraseggio o un effetto musicale davvero suggestivi, vuoi per la carenza di un timbro autenticamente drammatico vuoi per l’estraneità ad un’espressione aulica come la scolpitezza neoclassica del ruolo pretenderebbe. La sua sacerdotessa druidica è risultata così poco incisiva nei momenti tragici e non memorabile in quelli belcantistici, limitando quindi il suo approccio al ruolo a ben poco di più di una rispettabile restituzione esecutiva.
A questo punto la qualità degli altri interpreti ha contribuito a sostenere il livello dell’edizione, a partire dal Pollione del sempreverde Gregory Kunde, forse apparentemente stentoreo per la grande ampiezza acquisita negli ultimi tempi dalla sua vocalità ma come sempre stilista impeccabile. Dopo aver praticamente cantato tutto il Bellini tenorile, questo ruolo estremo l’ha visto fraseggiare con eroismo, proiettarsi sino alle vette di un esplosivo do acuto e variare con gusto la sua aria e i suoi interventi in perfetto stile belcantistico. Un’interpretazione da tenere a mente e che il pubblico non ha mancato di sottolineare con i maggiori consensi della serata. Senza vantare qualità timbriche particolari, il mezzosoprano rumeno Roxana Constantinescu è stata un’Adalgisa sensibile e particolarmente attenta alle sfumature espressive, mentre Dmitry Beloselskiy ha fatto valere come Oroveso una vocalità imponente e l’adeguata autorità sacerdotale. Validi, per finire, la Clotilde di Anna Bordignon e il Flavio di Emanuele Giannino.
Positivo il riscontro di pubblico, che alla fine ha applaudito con calore l’esecuzione, in programma stasera (giovedì 4 giugno) anche per gli spettatori di Rai5.
Visto il 30 maggio al Teatro la Fenice di Venezia. Ultima replica sabato 6 giugno 2015
NORMA
Tragedia lirica in due atti
Libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini
NORMA Carmela Remigio
POLLIONE Gregory Kunde
ADALGISA Roxana Constantinescu
OROVESO Dmitry Beloselskiy
CLOTILDE Anna Bordignon
FLAVIO Emanuele Giannino
DIRETTORE Gaetano d’Espinosa
REGIA, SCENE E COSTUMI Kara Walker
MAESTRO DEL CORO Claudio Marino Moretti
LIGHT DESIGNER Vilmo Furian
Orchestra e Coro del Teatro la Fenice di Venezia
Purtroppo, questa produzione e’ un’ulteriore dimostrazione che il melodramma dev’essere rispettato, valutando eventuali innovazioni rappresentative attraverso un severo filtro di buon gusto. L’opera dev’essere amata! Kara Walker ha dimostrato di essere soltanto innamorata di se stessa e della sua personalissima idea dell’estetica. Ma l’assenza di senso del ridicolo che ha ispirato i costumi e la complessiva incredibile messa in scena offende non solo l’opera ma anche il senso estetico del povero spettatore attraverso un mix di ambientazioni africane, druidiche e (forse) egiziane.
Per dirla con una sola parola: una schifezza! Bellini non può finire in mani inadatte! La colpa non è di chi cerca visibilità senza meritarla ma è di chi pretende di dargliela mostrando insensibilità e incompetenza. Penoso quel pubblico che applaude. Ma si sa da chi è costituito