Fabrizio Gifuni

Fabrizio Gifuni e i “Ragazzi di vita” di PPP

È ben più di una “lettura” quella che Gifuni compie del primo romanzo di Pier Paolo Pasolini. Questo formidabile attore infatti, ci conduce dentro la fucina artistica di Pasolini, rivelandone l’amore sincero per le sue creatureMaria Grazia Gregori


Ritorna – ma forse non se n’era mai andato, depositato chissà dove nell’inconscio perlomeno di quelli della mia generazione – Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini. A quarant’anni dalla sua tragica morte e a sessanta dalla pubblicazione di questo romanzo, il primo di PPP, perseguitato dalla censura che pesò – va ricordato – pochi anni dopo sull’Arialda di Testori, risentire di nuovo i suoi personaggi parlare con un gergo che li identificava nella loro reale esistenza di ladruncoli, papponi, violenti, borseggiatori però anche capaci di gesti di impensabile tenerezza, figli delle poverissime borgate romane, messi ai margini da una società appena uscita dalla guerra che stava avviandosi, senza saperlo, verso il “miracolo economico”, già vittima del sacco dell’ambiente, della rovina dei pascoli perpetrata in nome del progresso, fa un certo effetto.

Di questo bisogna essere grati a Fabrizio Gifuni che ce ne ha proposto una lettura  al Franco Parenti di Milano con grandissimo successo. Ho scritto “lettura” e così, del resto, dice il programma ma per spiegare il lavoro di Fabrizio dovrei dire ricreato, riscritto. Questo formidabile attore infatti, ci conduce dentro la fucina artistica di Pasolini, ce ne rivela il pensiero, l’amore sincero per le sue creature, mascalzone ma sostanzialmente innocenti, sottoproletari senza causa che ancora non sapevano e forse non avrebbero mai saputo che tutto quello che sarebbe venuto dopo li avrebbe sempre e comunque esclusi. Lo fa dando a ogni personaggio di cui racconta – il protagonista Riccetto, ma anche il Lanzetta, Begalone, Agnolo, il Caciotta, il Piattoletta, Nadia, pronta a darsi e a rubare il rubato, nel corso dell’amplesso , ecc. – una voce, un gesto, un atteggiamento, una sottolineatura, una postura che aiutano gli spettatori a riconoscerli in quel fluente romanesco che lo scrittore friulano aveva scelto. Un lavoro mostruoso, continuamente dentro e fuori i personaggi, dentro e fuori la pagina scritta e dunque dentro e fuori lo sguardo dell’autore che tanto amorevolmente li aveva ritratti in un romanzo che è un vero e proprio romanzo di formazione visto dalla parte degli emarginati, degli sfigati dove il punto di arrivo è l’entrata del Riccetto, sia pure dopo il carcere, nel mondo della cosiddetta normalità con un lavoro, una ragazza da sposare. E allora ci si taglia i ricci, quasi un sacrificio propiziatorio verso una vita nuova.

Insieme ai ragazzi di vita, Gifuni ci racconta le borgate di una Roma degli anni Cinquanta –Donna Olimpia, Ponte Mammolo, Pietralata, …– e le storie di questi ragazzi e i loro gesti crudeli e talvolta impensabilmente dolci: dare fuoco senza ucciderlo a un ragazzo o buttarsi nel fiume per mettere in salvo una rondine che sta per annegare. È il gesto per il quale il Riccetto è diventato famoso, un gesto che non ripeterà quando Genesio, uno dei tre figli del padrone per cui lavora, per imitarlo o per sfidarlo si butta nell’Aniene annegando fra il dolore e il terrore dei due fratellini Borgo Antico e Mariuccio, perché Riccetto – ci dicono Pasolini e Gifuni – è diventato adulto e di gesti generosi non ne farà probabilmente più.

Credo sia la prima volta che Fabrizio Gifuni – che a Pasolini ha dedicato un altro spettacolo molto bello e importante, Na specie de cadavere lunghissimo, con la regia di Giuseppe Bertolucci – affronti quel capolavoro che è Ragazzi di vita all’interno del quale costruisce un itinerario personale del tutto condivisibile che conclude con dei versi di PPP: “la morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi”. Lo dice lì, in scena,  con tutta la sua lucidità, la sua presenza d’attore, la sua bravura, la sua passione. Quelli che (come me) si sentono orfani di Pasolini l’altra sera al Franco Parenti avrebbero voluto abbracciarlo.

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano