Fabrizio Gifuni

Fabrizio Gifuni in Lo Straniero di Camus

Prosegue il percorso dell’attore nelle vite di scrittori eccellenti. Dopo Pasolini, Gadda, Saint Exupery e Pavese, è la volta di Albert Camus, di cui rilegge con arguzia la parabola esistenzialista del protagonista MeursaultMaria Grazia Gregori


Abituato alla sfide solitarie, spinto da un evidente amore nei confronti della letteratura, ma, allo stesso tempo, convinto che la pagina scritta possa trovare un nuovo corpo se non proprio una nuova vita nella presenza dell’attore, da tempo Fabrizio Gifuni ha iniziato un viaggio in solitaria che più che un’avventura è una scalata impervia. Da Pasolini a Gadda, da Saint Exupery a Pavese è ora approdato alla scrittura aguzza, inquieta, di una cerebralità carnale di Albert Camus, francese di Algeri e dunque pied-noir, come venivano chiamati i francesi nati in Africa dei nord.

Il libro in questione è Lo straniero, scritto nel 1942, costruito attorno a un personaggio inquietante nella sua mancanza di qualsiasi sentimento, chiuso in un’indifferenza egoistica verso le cose e le persone che gli sarà fatale quando dovrà essere giudicato per un omicidio commesso non tanto per crudeltà o per istinto omicida ma perché invischiato in una situazione di tensione e con il caldo che gli annebbia la capacità di reagire. Tutto questo contribuisce a fare di Meursault, uomo senza qualità, ateo, impiegato ad Algeri,segnato dalla noia totale delle propria vita, il protagonista di un romanzo fondamentale di quell’importante movimento filosofico e letterario che è stato l’esistenzialismo.

Con il tutto esaurito, il Teatro Franco Parenti di Milano inaugura dunque la sua nuova stagione con Fabrizio Gifuni, che torna qui, dove è di casa, dopo la vittoria ai David di Donatello e ai Nastri d’argento con Il capitale umano di Virzì. Ci torna con uno spettacolo anzi un reading che è un assolo bifronte: da un lato rispetta in pieno la scrittura di Camus tutta in prima persona, sorta di diario interiore del protagonista che, senza la folle consapevolezza che hanno, per esempio, i dannati di Genet, rivive la propria vita prima di essere condotto alla ghigliottina; dall’altro, anche grazie a un sottofondo sonoro insinuante e liquido di G.U.P. Alcaro, la dilata ai suoni, ai profumi, agli odori della vita, all’attenzione per gli oggetti, alla descrizione delle situazioni, alla palese incapacità di soffrire per la morte della madre (la morte gli sembra così definitiva da rendere impossibile qualsiasi dimostrazione di dolore, qualsiasi lacrima), alla sostanziale indifferenza, se non nell’immediato qui e ora, anche per Marie Cardona, la ragazza alla quale per breve tempo si accompagna.

Di fronte a un leggio con i bracci di sei microfoni puntati verso di lui, in piedi, illuminato da un luce ora fioca ora forte (regia di Roberta Lena), vestito di bianco, mentre alle sue spalle Alcaro gli costruisce una scenografia sonora che si sfrangia con rotture improvvise in alcune celebri canzoni dei Cure e dei Tuxedomoon, Fabrizio Gifuni non ha bisogno di trasformarsi né in maschera né in megafono per trasmetterci la parola di Camus, in un’intervista impossibile – così dice il sottotitolo dello spettacolo -, che si snoda in diversi movimenti che rispecchiano i nodi fondamentali del testo (riduzione letteraria di Luca Ragagnin) come se il protagonista interrogasse se stesso. Il suo, infatti, è un approccio senza identificazione al personaggio di Meursault di cui ci restituisce, in un’interpretazione di forte impatto e spessore, la solitudine esistenziale, l’ossessione della morte, la disperazione travestita da indifferenza, la sostanziale incapacità di “giustificare”, di dare un senso alla propria esistenza.

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano