Il nuovo spettacolo”Pouilles. Le ceneri di Taranto” è un viaggio autobiografico alla ricerca delle radici che rammenta, sia pur con minor nitore, lo storico “Risotto” del 1978 – Renato Palazzi
Conosco e ammiro lo stile teatrale di Amedeo Fago fin dai tempi del mitico Risotto, uno spettacolo del ’78 in cui l’autore, regista e sceneggiatore cinematografico raccontava, in pratica, la (sua) vita nel tempo di preparazione di un risotto: mentre il compagno di scena Fabrizio Beggiato, professore di filologia romanza, selezionava e assemblava gli ingredienti, li affettava, li tritava, li riversava nella pentola per poi passare ai metodici procedimenti zen della cottura, lui, aiutato da immagini di supporto, ricostruiva con impassibile fedeltà i più minuti dettagli della loro amicizia – sarti, barbieri frequentati, traslochi, matrimoni, divorzi – fin dal momento del primo incontro sui banchi del liceo. Quando il piatto, alla fine, era pronto, veniva fatto assaggiare agli spettatori.
Quella geniale performance verbale-gastronomica è stata poi riproposta infinite volte, e viene tuttora replicata con successo. In effetti, nel suo ironico ma folgorante sperimentalismo c’era un che di anticipatore, quasi di profetico: precorreva dei rapporti fra teatro e cibo che si sarebbero incontenibilmente diffusi negli anni a venire, svelava un modo di cogliere la realtà quotidiana in una forma rigorosamente minimalista, alla Pérec. Ma precorreva soprattutto una certa vena post-drammatica del teatro di oggi, la tendenza a sostituire la finzione rappresentativa con la diretta esternazione autobiografica degli interpreti. Per quanto mi riguarda, ne ero stato a tal punto colpito che dopo averlo visto avevo voluto subito imparare a fare anch’io il risotto.
Pouilles. Le ceneri di Taranto, il nuovo spettacolo che Fago ha realizzato – senza Beggiato – al Théâtre Gerard Philippe di Parigi, e presentato quindi in versione italiana al Teatro Vascello di Roma, per “Le vie dei Festival”, e al Teatro No’hma di Milano, procede grosso modo nella stessa direzione, ma attingendo a un arco temporale molto più ampio e articolato. Fago, presente sul palco, ma affidandosi prevalentemente alla propria voce registrata, parte da un occasionale ritorno alla città d’origine della famiglia, che è appunto una Taranto da lui descritta come preda di un devastante inquinamento ambientale, e prendendo spunto da una visita agli archivi del cimitero ricostruisce le vicende dei suoi avi in un viaggio di due secoli attraverso la società italiana.
Mentre lui, seduto a un tavolino, incolla i cocci di una metaforica zuppiera, per poi passare a estrarre da una cesta e ad appendere una serie di vecchi abiti e divise militari, sul fondale vengono proiettate foto ingiallite, lettere, documenti. E la voce fuori campo collega puntigliosamente ogni immagine a un pezzo del cammino dei suoi antienati, la creazione di un’azienda, un’ingiusta accusa di truffa, l’ossessione di due parenti che si credevano figli dello zar Nicola II. A un certo punto, la foto di una riunione famigliare per il compleanno del nonno prende vita, le figure si muovono incerte e un po’ smarrite, e descrivono i propri destini incrociati: c’è chi muore di tifo a 34 anni, chi viene fucilato dai nazisti, chi pubblica libri di poesie e chi fonda industrie alimentari.
Il risultato è, insomma, non diverso da quello ottenuto con Risotto, meno nitido nella struttura – qui manca l’inesorabile scansione del rito culinario – ma più intenso e dotato di un maggiore respiro storico. I casi individuali si dilatano fino a diventare emblemi di varie fasi del nostro costume nazionale. Enunciati con lo stesso gusto pignolo del particolare – la tonaca dello zio prete è chiusa da 44 bottoni – i temi privati si intrecciano con le sorti del Paese, Tripoli, il terremoto della Marsica, le trincee della Prima Guerra Mondiale. Ci sono aspetti che fanno sorridere, e altri che inducono a confronti impietosi: che dire di quell’antico deputato che si rammarica d’aver ricevuto in dono del pesce, perché accettare regali non si conviene alla delicatezza del suo ruolo?
I consensi che lo spettacolo raccoglie non stupiscono: c’è qualcosa, nel lavoro di Fago, che trascende i confini del teatro, che tocca direttamente la sensibilità dello spettatore: con quel linguaggio spoglio, immediato riesce a far sì che i suoi bisnonni, le sue zie sembrino entrare a far parte della nostra stessa memoria famigliare, tasselli di una coscienza comune. L’unica scelta che non mi convince è nell’ultima scena, quando fa entrare un attore che impersona suo padre, lo aggiorna sul passato dell’uno che è il futuro dell’altro, gli fa ascoltare il brano di Beethoven che egli volle fosse suonato al suo funerale: questo finale, dalle vaghe risonanze pirandelliane, viola a mio avviso lo statuto di verità imposto al resto dell’azione. Il loro dialogo non manca di emozione, ma rischia di suonare artificioso e in definitiva un po’ retorico.
Pouilles. Le ceneri di Taranto
testo, ideazione e regia: Amedeo Fago
musica: Franco Piersanti
costumi: Lia Francesca Morandini
effetti speciali: Davide Ippolito, Luca Di Cecca
montaggio video: Daniele Carlevaro
con: Amedeo Fago, Giulio Pampiglione