I Post di Renato Palazzi

In cui si celebra un autodafé telefonico da suoneria e si riflette seriamente su una “Fortezza vuota”Renato Palazzi


Pensavo che non mi sarebbe mai successo, invece mi è successo. Credevo di avere silenziato con ogni cura la suoneria del telefono, che invece si è messo a squillare nel bel mezzo di uno spettacolo. È capitato proprio a me, che mi vantavo di essere professionista fino in fondo anche nell’evitare questi rischi. A me che mi permettevo di bacchettare gli altri, di impartire lezioni di buona educazione. Anche se nessuno mi ha riservato lo stesso sguardo di riprovazione che adotto di solito in questi casi, avrei voluto sprofondare. Non mi ero mai vergognato tanto. Ma l’incidente non mi rende più comprensivo verso chi incorre in simili distrazioni: anzi, mi spinge a posizioni ancor più estreme. Se un fatto del genere può accadere anche a chi pone la massima attenzione per evitarlo, penso che a questo punto il telefono a teatro non vada neppure portato, che sia più sano e prudente lasciarlo a casa.

La fortezza vuota, il documento che Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini hanno letto al festival “Contemporanea” di Prato, più che un semplice “discorso sulla perdita di senso del teatro” è un manifesto teorico, un appello «all’esodo e allo scisma». Civica, dopo le lucide previsioni sugli effetti del decreto di riforma dello spettacolo dal vivo (di cui ci siamo diffusamente occupati anche noi di Delteatro. NdT), torna sul tema per esaminarne nei dettagli le nefaste conseguenze, tracciando, con Scarpellini, un’impietosa fotografia della scena italiana di oggi. Concordo in buona parte con le loro analisi: come non condividere il giudizio negativo su un sistema che antepone i numeri ai meriti artistici, dove chi fa ricerca o persegue un’alta qualità creativa lo fa praticamente a proprie spese, e senza nessuna chance di arrivare sulle ribalte importanti. Sono anche d’accordo sulle trappole cui è esposta la critica. Eppure c’è qualcosa, nei loro argomenti, che non mi convince fino in fondo. Capisco l’amarezza. Ma enfatizzando solo i vizi e le contraddizioni si rischia di generalizzare, finendo col darne un’immagine quasi parodistica.

Personalmente, al di là dei guasti provocati dal decreto, credo che l’allarme lanciato da Civica e Scarpellini sia fondato, ma riguardi solo una certa parte del teatro, e neppure maggioritaria, non la totalità di ciò che accade sui nostri palcoscenici. Con tutto il pessimismo che le circostanze richiedono, non riesco a pensare che esperienze di assoluta eccellenza anche etica, come le non-scuole di Marco Martinelli o gli spettacoli di Armando Punzo coi carcerati di Volterra, che percorsi di respiro internazionale come quelli di Deflorian-Tagliarini, di Saverio La Ruina, di Emma Dante, degli Anagoor, di Lucia Calamaro, che una vitalità diffusa come quella cui abbiamo assistito negli ultimi anni possano essere soffocati da una miope burocrazia teatrale. Ci sono modelli positivi, vedi le due multisale milanesi, che dimostrano come sia possibile coinvolgere un pubblico più ampio senza scendere a indecenti compromessi artistici. Vanno studiati, lo dico da tempo.

Non mi sembra verosimile la loro ipotesi che il Mibact abbia messo in piedi un baraccone come quello dei Teatri Nazionali e dei Tric per gettare fumo negli occhi, al fine di procedere a una strategia di azzeramento dei contributi pubblici. Certo, c’è un serio problema di finanziamenti, che richiederebbe una mobilitazione di tutto l’ambiente teatrale. I fondi ministeriali, inutile illudersi, non sono comunque destinati ad aumentare, e di questa tendenza artisti e operatori devono farsi carico collettivamente: servirebbe, se non è troppo tardi, una ferma presa di posizione contro un decreto in ogni caso sbagliato, rinunciando agli ipocriti distinguo di chi crede di averne tratto qualche piccolo vantaggio: e servirebbe un energico fronte comune che pretenda l’attuazione delle condizioni legali e fiscali necessarie ad attivare dei canali di finanziamento privati. Con criteri che, ovviamente, sono tutti da studiare.