Il “Galileo” di Lavia non è di Strehler. È di Lavia

L’imponente messinscena della “Vita di Galileo” di Brecht a cura di Gabriele Lavia suscita una lettura comparata con altre due memorabili pièce: quella di Strehler del ’63 e quella del Berliner Ensemble di fine ’70Maria Grazia Gregori

L’andata in scena di uno spettacolo dai grandi numeri – per gli artisti impegnati, per l’evidente sforzo economico di due teatri nazionali, la Pergola di Firenze e il teatro Stabile di Torino, per la ragguardevole durata (più di 4 ore) che solo pochi spettacoli possono permettersi -, come Vita di Galileo di Bertolt Brecht, regia e interpretazione di Gabriele Lavia, testo di cui in Italia si favoleggia molto ma che solo pochi conoscono, e pochissimi hanno messo in scena (dopo Strehler ricordo quello “mediterraneo” di Scaparro) credo imponga una riflessione su questo dramma – al quale l’autore tedesco lavorò per circa vent’anni durante e dopo l’esilio americano dove fu rappresentato per la prima volta nell’interpretazione del grande Charles Laughton innescando una diatriba, per fortuna oggi priva di senso, se il grande scienziato dovesse essere interpretato da un attore grasso o da un attor magro – e interrogarsi non tanto sull’autore quanto sulla libertà di rappresentarlo secondo scelte che appartengono solo a chi lo mette in scena. Per farlo ho scelto, oltre allo spettacolo di Lavia che mi ha spinto a questa riflessione, quello diretto da Giorgio Strehler – per quelli della mia generazione “mitico” – e quello con Ekkehard Schall del Berliner che ci ha fatto comprendere come l’ortodossia, compresa quella interpretativa, ha poco a che fare con il teatro, per fortuna.

Tutto ha inizio in una sera del 1963 al Piccolo di via Rovello. È la prima volta che Vita di Galileo sale su di un palcoscenico italiano. A portarcelo è Giorgio Strehler che, finalmente, dopo averlo più volte annunciato, riesce ad imporlo. Sarà uno spettacolo dei “primati”: tre mesi di prove, cosa mai vista da noi; ingerenze a non finire della curia milanese con prediche la domenica dai pulpiti delle chiese: non dimentichiamo che tutte le opere e le teorie di Galileo sono state considerate eretiche fino al 1992; la durata dello spettacolo – cinque ore e mezza – passata poi come misura di lunghezza nei discorsi degli addetti ai lavori per cui una cosa poteva essere “lunga come il Galileo”, “lenta come il Galileo” ecc.; l’aureola di spettacolo più maturo e importante dell’“Italia uscita dalla Resistenza” (Bruno Schacherl su Rinascita); la divisione in due fazioni opposte della politica cittadina (a mediare ci pensò Paolo Grassi): c’era la cortina di ferro, il mondo era diviso in blocchi e Brecht, che nel frattempo era già morto da un pezzo, era stato pur sempre un comunista…

Lavia ha raccontato di essere stato presente a quella prima e che la visione di quello spettacolo l’aveva spinto a scegliere la strada del teatro. Quella sera in quella sala c’era anche chi scrive, allora liceale: per questo ricordo con vivezza lo stupore che mi prese e il fascino sottile di quello spettacolo. Strehler aveva scelto anche lui un attore di ragguardevole stazza come il grande Tino Buazzelli, creandogli attorno uno spettacolo memorabile costruito sulla tensione fra il realismo dei particolari specialmente umani e la leggerezza fantastica dell’insieme. Ma la vera singolarità del lavoro strehleriano nasceva dalla sensazione, quasi irreale, di trovarsi di fronte all’affermazione della necessità del teatro di calarsi nel sociale, specchio e riflesso dell’uomo e del mondo. E ciò avveniva dentro i magici spazi di Luciano Damiani, illuminati da una luce bianca e da una ricerca quasi provocatoria condotta dal regista sull’interpretazione che si dipanava sulle onde lunghe e lunghissime impresse alla recitazione degli attori. Ho sempre pensato a questo spettacolo non come a un saggio di teatro epico (in parte un po’ lo era, però), ma come all’ingresso di una dimensione umana e drammatica che integrava quella epica in un dialogo dialettico fra ragione e sentimento, fra dubbio e coraggio, fra prevaricazione dell’oscurantismo e valore della ricerca.

Ben diverso era il Galileo del Berliner Ensemble, presentato in Italia due volte alla fine dei Settanta e degli Ottanta, tutto giocato su di una sinfonia di grigi, che non rinunciava all’ironia e aveva in Ekkehard Schall il suo interprete d’elezione, un attore per il quale il teatro di BB era il pane quotidiano (Brecht era suo suocero) così come il tanto discusso effetto di straniamento, avendo la serena consapevolezza che quello che stava alla base del lavoro interpretativo dell’attore brechtiano era comunque un forte, rigoroso lavoro stanislavskijano. Per dirla semplicemente: non si poteva raggiungere l’effetto di straniamento se prima non si entrava “dentro” il personaggio arricchendolo delle proprie tensioni, delle proprie suggestioni. La luce era chiara e forte e dal palcoscenico scendeva verso in platea. Lì, abbigliato in abiti moderni – ricordo un pesante cardigan grigio dalle ampie tasche, comode per nascondere quanto più poteva all’occhiuta attenzione dei suoi preti guardiani – ma anche i cassetti dei tavoli da lavoro potevano venirgli in aiuto – , indossando solo in alcune occasioni dei “pezzi” di costumi d’epoca, il Galileo di Schall, attore grandioso che non rinnegava a nessun costo la sua unicità, era familiare, terrestre, simpatico, di una sensibilità e golosità meno concreta, più di testa rispetto a quella di Buazzelli. Ma poteva anche essere chiuso nella solitudine dolorosa di un uomo che si batteva per la sua vita cercando di non venire mai meno alla consapevolezza del suo ruolo e improvvisamente avere uno scatto ironico quasi osservasse se stesso dal di fuori, e intanto inanellava una partitura gestuale formidabile, assolutamente naturalistica, magari stringendo gli occhi affaticati a suggerire il preludio della cecità. Erano tempi difficili, quelli, nella DDR e molti di noi osservavano rabbrividendo le sue manovre per mettere in salvo il suo lavoro, quella sua capacità di navigare scansando le minacce e abiurando con timore: ma di lì a poco il muro sarebbe caduto…

Assistendo allo spettacolo di Gabriele Lavia non si può fare a meno di pensare che proprio quest’opera all’apparenza fissata quasi come un monolite suggerisca e possa sostenere, al contrario, una grande libertà d’approccio, che permette a chi la mette in scena di “riscriverla” secondo la propria visione del teatro, ai suoi mezzi d’attore. Lavia, che è un interprete di talento, dalla forte personalità, predilige da sempre un teatro che tolga la sedia da sotto il sedere dello spettatore: che lo sorprenda insomma, che non lo lasci tranquillo perché se c’è qualcosa che Lavia aborre è proprio il ron ron di tanto teatro di casa nostra. Lavia ama un palcoscenico che abbia al suo centro l’attore e partendo da questo punto di vista non è stato – se così posso dire – un guastatore all’incontrario, firmando in prima persona alcuni spettacoli che si ricordano. Ma allora, si dirà, perché proprio Brecht?

La scelta non tanto di Brecht ma di “questo” Brecht viene da lontano, dall’emozione di quel ragazzo di vent’anni e da un debito d’affetto che voleva pagare alla memoria di un regista grandissimo che si era scelto come maestro d’elezione. L’ha fatto alla maniera di Lavia: fedele quanto più possibile al testo, ma liberissimo nelle possibilità di interpretarlo. Nessun teatro epico, nessun effetto di straniamento, ma la consapevolezza di vivere in un’epoca divorate dalle guerre che scoppiano un po’ dovunque, dove la lotta sembra rinchiudersi nella contrapposizione fra la scienza e la politica. Nel palcoscenico di Lavia c’è un magma espressionista che tutto invade nel barocco e nella cupezza delle scene, magari guardando alla seicentesca pittura spagnola, nelle enormi croci che scendono dalla soffitta a suggerirci l’onnipresenza della chiesa nella persecuzione della libertà di pensiero e dunque della conoscenza e della scienza, ma anche della vita stessa delle persone. Ma non rinuncia all’ironia che è una componente – questa si – brechtiana del suo personaggio, che ha momenti molto belli nel rapporto con i suoi allievi, nell’improntitudine con cui gabella un’invenzione non sua per portare quattrini a casa. E non rinuncia neppure ai colpi di teatro, a darci dentro nelle scene più forti.

Il Galileo di Strehler-Buazzelli era un andare e venire, fra grigi e bianchi, di brevi accensioni, guidato da un senso profondo della storia e della sua fatalità. Quello di Lavia, che nasce in un tempo in cui molti rimpiangono il teatro del grande attore, è rosso, bianco, nero, dorato, ma di grigio non ha proprio nulla. È orgogliosamente, sinceramente, un rutilante spettacolo corale che ruota attorno al suo protagonista. E così sia.

Visto al Teatro Carignano di Torino. Fino al 25 ottobre 2015. Dal 28 ottobre al 12 novembre al Teatro della Pergola di Firenze

Vita di Galileo
di Bertolt Brecht
con Gabriele Lavia
e con Massimiliano Aceti, Alessandro Baldinotti, Daniele Biagini, Silvia Biancalana, Pietro Biondi, Francesca Ciocchetti, Gianni De Lellis, Michele Demaria, Chiara De Paolo, Luca Di Prospero,
Alice Ferranti, Giulia Gallone, Ludovica Apollonj Ghetti, Giovanna Guida, Lucia Lavia,
Andrea Macaluso, Mauro Mandolini, Luca Mascolo, Woody Neri, Mario Pietramala, Matteo Prosperi, Matteo Ramundo, Malvina Ruggiano, Carlo Sciaccaluga, Anna Scola
musiche originali Hanns Eisler
eseguite dal vivo dai musicisti della Scuola di Musica di Fiesole
Elena Pruneti (flauto), Graziano Lo Presti (clarinetto), Giuseppe Stoppiello (pianoforte)
regia Gabriele Lavia
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
luci Michelangelo Vitullo
regista assistente Giacomo Bisordi
vocal coach Francesca Della Monica
assistenti alla regia Alessandra Aricò, Simone Faloppa, Antonio Ligas
assistente alle scene Andrea Gregori
assistente ai costumi Anna Missaglia
prodotto da Fondazione Teatro della Toscana, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale