Bernhard fortissimamente Bernhard

È ormai diventata una piacevole abitudine ritrovarsi di quando in quando nel salotto di Renato Palazzi per assistere affascinati alla trasformazione di un autorevole critico in un compunto interprete. Con una passione speciale per il caustico drammaturgo austriacoMaria Grazia Gregori


Il paragone sarà anche un po’ azzardato eppure a me pare che la fascinazione di Renato Palazzi per Thomas Bernhard sia simile a quella dell’ibseniano John Gabriel Borkmann che da bambino, accompagnando il padre in visita a una miniera in cui si estrae oro, ne rimane talmente incantato da portare questa fascinazione con sé per tutta la vita. Dunque: una fascinazione irredimibile visto che nella storia di critico di Renato Palazzi ci sono stati i Bernhard di Bernhard Minetti, quelli di Gianrico Tedeschi, quelli di Cesare Lievi, di Franco Branciaroli ecc. Non ricordo se ci sia stata anche la straordinaria lettura che di Gelo fece molti anni fa un carismatico Bruno Ganz. Un amore, il suo, neanche tanto segreto che si consuma su testi non teatrali (il primo è stato Goethe schiatta, il secondo è L’imitatore di voci che ho visto da poco) presentati nelle case di amici o nel soggiorno di casa sua, spazi sicuramente privilegiati, ma spesso abitati da un pubblico molto esigente.

Eccolo, dunque. ancora una volta di fronte a noi, con la sua aria un po’ sorniona. Ritornare a Bernhard con L’imitatore di voci pubblicato da Adelphi nel 1978, e costruire un percorso all’interno di questo libro “bernhardiano al quadrato” cioè ironico, divisivo, feroce, suggerendo un personaggio che è un vero e proprio consumatore di parole come lo sono tutti quelli inventati dallo scrittore austriaco che, del resto, provocatoriamente dichiarava di non avere mai voluto arrivare a nessuna conclusione, percorrere alcuna strada perché temeva che il farlo fosse “senza fine e quindi senza senso”.

Allora ecco che lì, nel salotto di casa, entrando da una porta laterale fino a quel momento chiusa, indossando dei knickerbockers, calzettoni a losanghe e una camicia con tanto di mezze maniche come si faceva un tempo per conservare più a lungo la freschezza dei polsini, il nostro protagonista si avvicina circospetto a un lungo tavolo ricoperto interamente di oggetti che all’inizio ci sembrano misteriosi e poi invece avranno un’importanza fondamentale nel corso dello spettacolo. Sedutosi al tavolo l’inqualificabile personaggio, con l’aiuto di una lente, osserva e commenta, con una valenza inquietante, frammenti di giornali, notizie, borbottando fra sé e sé o leggendo con più attenzione questi flash brevi, notizie di cronaca inventate ma magari anche vere, tragiche, surreali, grottesche, macabre che provocano in noi una sensazione di spaesamento, di non detto che accettiamo visto che il nostro eventuale tentativo di cercare di capire rischia di non andare a buon fine perché tutto ci appare così fuori di chiave e allo stesso tempo così normale da rendere le vicende raccontate addirittura “comiche” nel senso bernhardiano del termine.

Pronti dunque, lui e noi, ad andare per strade inaspettate creando dei nonsense, dandoci l’immagine di un deus ex machina assai poco “tragico” ma piuttosto simile a un entomologo non si sa se più borbottante o più insensato.

Quel salotto dove siamo testimoni di ciò che accade è piuttosto un luogo di trappole che scattano inquietanti e che scandiscono il vero e proprio ritmo interno delle storie prescelte, quasi un luogo di apparizioni di personaggi, che vengono riprodotti da immagini alle nostre spalle, le cui vicende sono introdotte dalle musiche di Brahms, di Schubert e dall’aria della “Regina della notte” del Flauto magico di Mozart e scandite, talvolta, dalle voci fuori campo di Angelo Di Genio, Tindaro Granata e dello stesso Palazzi. La scelta dei pezzi prescelti è, ovviamente, personale eppure è grazie ad essa che noi veniamo catturati dentro lo sghembo universo di questo grande scrittore dove pulsa una vita del tutto speciale, forse indecifrabile. Proprio per questo L’imitatore di voci non è e non vuole essere uno spettacolo chiuso, compiuto ed è proprio da questa incompiutezza che trae la sua forza avvalorando il senso profondo di una scelta.