Un trittico con denominatore comune la Grosse Fuge di Beethoven e la firma autoriale di tre coreografe ai vertici della gloria: Lucinda Childs, Anne Teresa de Keersmaeker e Maguy Marin, in uno spettacolo sofisticato e colto presentato in prima nazionale al Festival Apertio dal Ballet de l’Opéra de Lyon.- Silvia Poletti
Il talento di un direttore artistico nella danza si evidenzia non solo nella tenuta di una compagnia o nella individuazione e proposta di autori di qualità, ma anche nella concezione di programmi non triviali. Magari partendo da un tema abusato – come il programma dedicato a un musicista ( quante serate Bach, Stravinsky, Ravel abbiamo già archiviato nel corso del tempo?): si applicano delle variabili irresistibili, possibilmente di certo peso specifico,per dare un taglio non solo spettacolare ma anche culturale al progetto.
Yorgos Loukos, che nei suoi trent’anni di direzione al Ballet de l’Opéra di Lione ne ha fatto primo baluardo a difesa diffusione e ampliamento del repertorio moderno e contemporaneo d’autore, è un maestro assoluto in questo. Altrimenti non si sarebbe garantito la collaborazione dei maggiori nomi della scena mondiale, che hanno arricchito in maniera invidiabile ( ed esclusiva) il carnet della compagnia, fornendole un posto d’onore nella scena internazionale e – dato non trascurabile – una esportabilità economicamente gratificante.
Certo ci vuole talento, audacia, visione e soprattutto conoscenza a trecentosessanta gradi. Se no un programma come quello presentato al Teatro Valli di Reggio Emilia, in esclusiva nazionale per il festival Aperto, sarebbe sembrato presuntuoso, velleitario e snobistico. E invece è apparso raffinato, interessante e a tratti stimolante. Filo rosso -imponente nella sua strutturata poesia, a tratti tumultuosa, a tratti cupamente introspettiva la Grosse Fuge op 133 di Beethoven, architettura cameristica di somma altezza espressiva, nel teatro di danza già affrontata a suo tempo dal genio emozionalmente razionale di Hans Van Manen. Qui invece si affiancano tre autrici – di fatto tre capiscuola, visto che parliamo di Lucinda Childs, Anne Teresa de Keersmaeker e Maguy Marin– di età, formazione, estetica diversissima: unico significativo denominatore comune, se si può dire, il Leone d’Oro alla Carriera della Biennale di Venezia. E poi ancora dato comune e singolare,evidentemente indotto dalla musica, le corse in attraversamento della scena, a ritroso, con un temp levé en arabesque en derrière per tutte. Chiaro riferimento motorio alla fuga.
A loro dunque il compito di declinare attraverso la propria concezione di coreografia la partitura scenica impegnata a dialogare con il monumento beethoveniano, mantenendo integra la propria personalità, anzi se possibile asserendola anche grazie alla traduzione fisica degli impulsi musicali.
Si prenda Maguy Marin, che ha firmato la sua Grosse Fugue nel 2002 sulla celebre aguzza esecuzione del Quartetto Italiano. Quattro è il numero delle interpreti ( otto poi per Anne Teresa e dodici per la Childs), in gonnelle e magliette rosse, capelli scompligliati come la loro danza apparentemente sgangherata,fatta di exploit energetici, corse ‘scomposte’, furiosi slanci e battiti sul corpo -quasi per ‘sentirsi’. Quattro donne che danzano come prese da un’irrefrenabile necessità di affrontare lo spazio e il destino senza alcuna remora e fino all’ultimo respiro. Petto in fuori, testa bassa, gambe spesso piantate a terra o a cadenzare, toste, il passo sulla scena: Maguy condensa con la concretezza poderosa delle sue quattro donne quello che la corposa sonorità della Fuga le suggerisce. Inconfondibile.
Come inconfondibile è la logica fredda e meticolosa di Anne Teresa de Keersmaeker che compose la ‘sua’ Die Grosse Fuge venticinque anni fa. Otto danzatori ( due le donne) in nero e bianco -intabarrati in vestiti impiegatizi e scarponcini: poi pian piano si perdono giacche e camicie e si resta in tee shirt. Qui la scrittura è tersa, lineare anche se potentemente fisica -con cadute e rialzate, giri su se stessi, inconfondibili svirgolate e unisoni che sembrano improvvisati ma hanno una cantabilità vigorosa. Le linee si aprono e chiudono, con l’intersecazione dei danzatori che cadenzano lo staccato musicale con una danza sempre in ‘levare’, saltellata e eterea – seppure non neghi mai la pesantezza del corpo: di grande respiro, appena offuscato quando la musica si fa improvvisamente introspettiva, sovrastando di fatto la danza.
Unica creazione appositamente pensata per i danzatori lionesi – compagnia di buon livello ma non eccelsa né per stile né per qualità- la creazione 2016 di Lucinda Childs che apre la serata è quella che sorprende di più. E non in maniera positiva. Perché la maestra della composizione minimalista, la matematica della coreografia, di fronte all’onda beethoveniana – amplificata dalla scelta di proporre la Grosse Fuge nell’orchestrazione per orchestra d’archi- pur mantenendo l’inconfondibile raffinatezza nella confezione perlacea, grazie a luci, scene rarefatte e calzamaglie e il suo vocabolario cult con i deboules e i piccoli salti li annacqua in una declinazione così classicheggiante nella purezza delle linee, nei legati neoaccademici, nei port de bras tondeggianti, da stupire per l’ardita conversione estetica. E a tratti annoiare.
foto in apertura e nella gallery di Alfredo Anceschi