Quando Le Grazie sono tre hipster danzanti

Ad Armunia è andata in scena la nuova creazione di Silvia Gribaudi che dopo il successo di R.Osa questa volta pone il suo sguardo ironico sul ‘maschile’ e la danza accademica. Con annessi e connessi Silvia Poletti

 

Silvia Gribaudi è una performer e creativa che ha fatto dell’ironia e della leggerezza calviniana il primo motore delle sue invenzioni. Non dissacra, ma trattando di teatro fisico parte dal punto di vista dei comuni mortali – alti bassi, secchi, grassi, flaccidi, muscolosi, giovani e anziani – e trasferisce i sogni di molti di noi in scena: chi in fondo nel chiuso della sua stanzetta non ha mai replicato pose, voce movenze di un’icona personale? Lei stessa epitome della normalità più normale ha trovato in questo particolare aspetto dell’umano inesauribile fonte di ispirazione, trattata con fare lieve e vis comica invidiabile.

Prova ne è il gioiellino R.Osa, cinquanta minuti mirabolanti con la formidabile Claudia Marsicano, la cui esuberante duttilissima fisicità oversize e il magnifico viso gioioso diventano il fulcro di una serie di sequenze in cui si declina il corpo in tutte le sue accezioni -mediatico, ginnico, coreografico, quotidiano, democratico. Una piéce esilarante, nel senso fisico del termine: che fa respirare a pieni polmoni ed energizza il corpo e lo spirito dello spettatore.

Nell’ultima creazione Graces (in prima assoluta a Castello Pasquini di Castiglioncello per Armunia ) da una ragazza di opulenta bellezza la Gribaudi vira all’opposto e punta lo sguardo sul maschile e su quel senso di grazia ispirato dall’illustre gruppo Canoviano: gancio non peregrino se si pensa a quanto Canova influenzò la nascente danza classica ma, in sottofondo, ammantato di certi luoghi comuni – estetici e poetici- legati al mondo della danza e dei suoi spettatori. E così facendo punzecchia i cultori dell’accademia e del bello, accennando forse alla piena diatriba di questi anni e provoca il pubblico rivolgendosi direttamente agli spettatori e facendo pubblica ammissione di ben capire il fatto che alla fine il potere è nelle mani di chi paga il biglietto. Allora- la domanda sorge spontanea- cosa deve prevalere? Il consenso o la ricerca? E l’idea di bello si divide dall’idea di buono? E bello è anche qualcosa di apparente disarmonico? E perché?

L’autrice gioca di sponda alludendo alla pratiche attuali della creazione contemporanea, confessando di aver puntellato il percorso di questa ultima creazione con numerosi debutti ( l’estenuante teoria del progress, oggi idea dominante nella danza “autoriale” col conseguente inevitabile feedback con il pubblico),di fatto rivelando l’amletico dubbio di chi si trova a metà tra il desiderio di un consenso ‘popolare’ e l’utopia dell’opera continuamente rielaborata.

Cosa ne esce? Il rodato meccanismo dell’alternanza danza-talk-danza porta l’autrice ad adagiarsi su una forma sicura di struttura generale, della quale però ogni tanto perde la tensione e il ritmo ( specialmente nella parte parlata) così come il suo reiterato inserimento tra i tre – brillantemente dissonante e gaiamente auto-ironico,- a lungo andare propone lo stesso schema, tra un’esposizione affidata ai ragazzi e una dissacrazione mantenuta dall’autrice, in costante affannoso tentativo di emulazione.

Perfetti rappresentanti dell’attuale immaginario coreutico di tendenza Siro Guglielmi, Matteo Marchesi e Andrea Rampazzo, tre hipster danzanti con testa rasata, folta barba d’ordinanza, braghetta e calzino nero a mezz’asta sono bravi ma manca ancora loro la forza impattante di una presenza scenica che renda abissale e quindi davvero ficcante il divario tra l’ideale e il reale cui allude la Gribaudi. Ci arriveranno, presumibilmente, con il tempo. Gli accenni alla danse d’école, con arabesque, entrechats, giri alla seconda variamente eseguiti su architetture musicali barocche lasciano il campo a scapricciate scivolate acquatiche alla Ester Williams tutti avvolti in fiorami e biancheria intima dorata dai tocchi camp così come i brandelli di vorticosi valzer viennesi, e le chiacchiere con il pubblico fanno spazio all’elogio del culto del corpo, chimera irraggiungibile ma dominante nel pensiero comune attuale. Forse un po’ più di cattiveria, un graffio più deciso aiuterebbero a non fare calare la tensione. Ma è già qualcosa che si esca da teatro con il sorriso sulle labbra.

foto G. Chiarot