E Stravinsky si scoprì ‘salsero’ grazie ad Emanuel Gat

Frequente ospite delle nostre scene il coreografo Emanuel Gat ha offerto l’occasione di vedere a distanza ravvicinata la sua ultima creazione “Sunny” e il suo primo successo “Sacre” in due importanti appuntamenti festivalieri, a Venezia e Bolzano. Cosa che ci consente una riflessione ponderata sul percorso del suo lavoro – Silvia Poletti

Emanuel Gat, fascinoso coreografo israeliano da vari anni insediatosi nel Sud della Francia è stato uno dei protagonisti dell’estate festivaliera italiana. Prima al Festival Internazionale di Danza della Biennale di Venezia, l’ultimo diretto da Virgilio Sieni (che lascia il campo alla canadese Marie Chouinard) poi a BolzanoDanza ha presentato un ventaglio della sua creatività passando dall’ultimissimo lavoro Sunny a ritroso fino a quel primo Sacre che nel 2004 lo rivelò ai Francesi e di lì al mondo.

Se il Sunny veneziano ha però molto maldisposto gli osservatori che lo avevano trovato pretestuoso e vacuo, con quell’intercalare di sequenze a se stanti, ora in gruppo, ora a duetti e trii, in apparente ma scarsa dialettica con la musica elettronica live di Awir Leon, Sacre visto a Bolzano con la sua trovata iniziale che diventa un leit motiv tematico/coreografico può far capire la grande fiducia data al tempo al suo tenebroso autore.

Il quale contrappone al colosso musicale del Sacre du Printemps di Stravinsky un ballo caraibico (per la precisione la salsa) per due coppie e una ragazza, che attraverso l’intrecciarsi e slegarsi delle braccia, i volteggiamenti, lo scivolare dei corpi tra gli uni e le altre disegna un gioco di coppie che è ovviamente anche un gioco di tensioni reciproche, sopraffazioni, sottili violenze, dalle quali – in alternanza – una delle donne resta sempre esclusa. Da cui, per altro, si capisce la distanza siderale tra il sottile percorso imboccato dal coreografo e la partitura di riferimento, titanica nella sua possenza drammatica, che – onor del vero ha già avuto delle dissacrazioni radicali nel corso del secolo di vita – ma che continua a ergersi vittoriosa e rapace.

E infatti anche qui, seppure la morbida danza si dipani intrigante, seducente in qualche modo, totalmente indifferente delle coloriture timbriche dell’orchestrazione stravinskiana, e se mai mantenendosi attenta solo alla sua complessa scansione ritmica, il confronto è impari e allora se si vuol giudicare Gat, si deve trascurare Stravinsky e ci si lascia andare al flusso in rosso, tra gonnelle svettanti, abbracci possenti, a testa bassa, bacini e busti ondeggianti, volteggi e improvvisi sussulti di ribellione, nel perimetro di un bel tappeto.

Un simile solipsismo si percepisce in Gold. Anche qui si parte da una teorizzazione: usare le voci e le frasi raccolte da Glenn Gould in un documentario sui mennoniti fatto dall’immenso pianista per la televisione canadese e intesservi frammenti delle celeberrime interpretazioni delle Variazioni Goldberg. Da musicista (il suo sogno, prima di abbracciare la danza a ventitré anni era diventare direttore d’orchestra) Gat percepisce nel tessuto di voci montato da Gould una musicalità meticolosa simile alla struttura bachiana. E siccome si parla di comunità e senso di appartenenza i suoi ottimi e bei danzatori (tra cui danza lui stesso, dopo 5 anni dal ritiro, per cause di forza maggiore) strutturano matematicamente e concettualmente i gruppi e i soli cadenzandoli con precisione certosina.

Nelle intenzioni si vorrebbe raccontare del senso di comunità e delle relazioni tra individuo e gruppo. Tuttavia la continua invenzione delle dinamiche, dei legati, dei giochi di relazione fra individui, di investigazione individuale, misurazione del ritmo interiore, propria disposizione nello spazio scenico e in relazione con gli altri scivola in uno streaming dinamico debordante,  dove il gesto, scarno nell’emotività, diventa semplicemente incisione nello spazio, impersonale – nel senso che Gat non lo colora affatto di un suo tocco specifico – e semplicemente concreto e forse metaforico solo perché affidato a persone in carne ed ossa.

E questo ci pare proprio essere il limite del teatro di Gat: questa incapacità di superare il limite emozionale con lo spettatore;  e piuttosto mantenere una ‘distanza di sicurezza’, che rende tutto correttamente algido, distaccato, scarsamente empatico. Alla fine evanescente.

Visto al Teatro Comunale di Bolzano, BolzanoDanza 25 luglio 2016

In apertura Sacre, Emnanuel Gat Dance credits  Pitsphoto

Emanuel Gat Dance

Gold
Coreografia, luci e costumi Emanuel Gat
Musica Johann Sebastian Bach (Goldberg-Variations, eseguite da Glenn Gould)
Lighting design Emanuel Gat, Guillaume Février
Sound design Emanuel Gat, Frédéric Duru
Interpreti Pansum Kim, Emanuel Gat, Geneviéve Osborne, Francois Przbylski, Milena Twiehaus
Sacre
Coreografie luci e costumi Emanuel Gat
Musica Igor Stravinsky
Interpreti Emanuel Gat, Geneviève Osborne, François Przybylski, Milena Twiehaus, Ashley Wright