Stefano Massini come un rabdomante ha scritto questa pièce ispirata al celebre saggio del padre della psicoanalisi, che Federico Tiezzi e Fabrizio Sinisi hanno ridotto e adattato. Spettacolo che resta ed è soprattutto un magnifico lavoro di regia, per me, oggi, il culmine della “Way of Theatre” di Tiezzi. Ottimo il cast di attori, guidato da Fabrizio Gifuni – Maria Grazia Gregori
Tutto comincia con un sipario bianco e nero che ricopre quello tradizionale del Piccolo Teatro Strehler, dove si rappresenta Freud o l’interpretazione dei sogni, ispirato al libro con il quale nel 1900, alle soglie del nuovo millennio, il grande psichiatra di Vienna ha rivoluzionato l’approccio scientifico a ciò che la nostra psiche pensa veramente “nascondendolo” dietro sogni apparentemente inspiegabili. Il sipario bianco e nero è di Giulio Paolini e mostra un giovane uomo seduto su dei gradini con la testa fra le mani. Quest’uomo è al centro di una serie di linee nere che lo colpiscono. Quello però che non sappiamo è se le linee di forza o di folgorazione del pensiero abbiano nell’uomo la loro destinazione o se, al contrario, sia l’uomo il centro propulsore di queste forze che potremmo chiamare idee o se – visto che ci troviamo di fronte al siparietto di Freud o l’interpretazione dei sogni -, siano invece, per l’appunto, sogni. Poi ecco che il disegno si anima cambiando totalmente di segno trasformandosi nell’immagine in movimento di coppie in abito da sera che ballano sull’onda di un valzer di Strauss. È proprio questo inizio, questa immagine che si muta a vista in altre immagini a rendere palpabile il senso di uno spettacolo che vuole non tanto mostrarci ciò che non si vede e che, forse, non si può vedere, ma suggerirci il tempo e il luogo di un’azione che ha a che fare con gli strati più profondi e complessi della nostra coscienza.
Dal buio appare all’improvviso, su di un praticabile che lo spinge verso il pubblico, lui, Sigmund Freud, il narratore, il “mago”, la coscienza critica che forse non si vorrebbe avere o che si teme di avere che dà vita a un lungo viaggio nel buio prima di arrivare all’accettazione di se stessi, che sente come qualcosa che riguarda anche lui. Come nel mito della caverna di Platone, lo studio di Herr Freud ci appare popolato di reperti antichi, di cui era appassionato collezionista, ci nega o perlomeno ci rende accidentata, la vista, la conoscenza di ciò che sta al di là, il mondo di fuori con la sua realtà che ci viene – per così dire – mostrato con l’aprirsi e il chiudersi delle porte dalle quali appaiono i personaggi a folate con la loro realtà, la loro inquietudine, il loro bisogno di sapere. È un popolo formato da uomini e da donne, inseguiti dai loro sogni, che chiedono di essere liberati dalle loro ossessioni. E Freud, che non è un illusionista, a un certo punto ci dà la quasi certezza di volere essere un Mosè per questo popolo di oppressi, di schiavi dei loro pensieri, di anime un po’ folli e di riuscire a portarlo in salvo quando anche lui si sarà liberato dall’ossessione infantile di sfamare d’inverno le lucertole con la felce e, più ancora, del suo difficile rapporto con il padre che si materializza nel racconto del suo funerale che seguirà nudo, quasi un essere primordiale con il bastone del comando in mano.
Tutto questo ci viene rivelato poco alla volta attraverso l’apparizione di un popolo di pazienti: da Tessa W, incontrata più volte, a Wilhelm T., da Greta S, a Ludwig R., e poi Oskar e Helga K, la moglie Martha… un’umanità in pena che ci è talvolta presentata in una luce d’acquario come una processione (un omaggio a Bob Wilson), accompagnata da esseri con la testa di coccodrillo, un bestiario alla Savinio, una piccola galleria degli orrori che chiede non solo di essere rappresentata ma anche di essere vista e, dunque, di esistere. Del resto tutto si muove in questo spettacolo, in orizzontale o in verticale, usando quei campi lunghi cinematografici, alla Jancso, che tanto piacevano anche a Ronconi.
Queste riflessioni, queste immagini le devo a Freud o l’interpretazione dei sogni, che Stefano Massini come un rabdomante ha scritto ispirandosi al celebre saggio freudiano e che Federico Tiezzi e Fabrizio Sinisi hanno ridotto e adattato. Spettacolo che resta ed è soprattutto un magnifico lavoro di regia, per me, oggi, il culmine della “Way of Life” ma anche e soprattutto “Way of Theatre” di Federico Tiezzi. E qui mi ritorna l’immagine del fiume che scorre maestoso dentro gli argini, con il suo respiro largo, con le sue abbacinanti visioni, i suoi bui improvvisi, accompagnati da una colonna sonora che mescola Strauss a Schönberg, Max Richter al mitico Gustrav Gründgens, a Brian Eno, Angelo Badalamenti.
Guidati dalla maieutica del maestro che annota tutto su di un quadernetto (lo fa anche con i suoi sogni) come raccontava in un carteggio all’amico Schnitzler (medico anche lui e che con i suoi sogni si comportava allo stesso modo), e che ci suggerisce come questa propensione al sogno possa dare vita a una doppia visione per poi ritrovarci precipitati nella realtà vera, questo continuo ritorno al doppio: doppia realtà, doppia natura, doppia personalità, doppio sogno (ricordate il film di Kubrik tratto da Doppio sogno di Schnitzler?) è la feroce realtà di questo spettacolo che si avvale di un ottimo cast di attori. In scena dall’inizio alla fine nell’intrigante spazio inventato da Marco Rossi – un grande vuoto con pochissimi arredi che prende luce in alto da ampie vetrate all’interno del quale possono scendere all’improvviso dei sipari a sottolineare il passaggio da un punto all’altro del testo di Massini – il Sigmund Freud di Fabrizio Gifuni s’impone all’attenzione degli spettatori per la sua duttilità nel padroneggiare i diversi cambi di situazione, mantenendo senza affanno la stabilità della propria presenza. Severamente vestito di scuro con una lunga barba, ci sa trasmettere con autorevolezza e leggerezza allo stesso tempo l’ansia di conoscenza ma anche di certezza di Freud come se avesse fatto suo il celebre verso di Shakespeare dove si dice che gli uomini sono fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, ma anche nella naturalezza con cui sa destreggiarsi nel fluviale anche se ridotto testo, dato da sognare ai registi e agli attori.
Spicca fra gli interpreti con una interpretazione di grande spessore la Tessa W. di Elena Ghiaurov, del tutto simile, grazie anche ai bei costumi di Gianluca Sbicca, ai fascinosi, inquietanti ritratti di signore di Klimt. Ma vorrei ricordare anche Giovanni Franzoni e finalmente posso dire bene di Marco Foschi, che è Ludwig, per certi versi lo specchio nero nel quale Freud teme di specchiarsi. Ma in generale la resa di tutti gli attori è buona, da Bruna Rossi a Sandra Toffolatti, da Valentina Picello a Michele Maccagno, da Umberto Ceriani ad Alessandra Gigli, a Debora Zuin.
Di forte impatto emotivo l’epilogo affidato a Gifuni: “Mi trovo in un grande spazio”, ripete più volte l’attore interrogandosi sul senso della sua ricerca e del suo lavoro. E quando si accorge di non essere solo e si chiede chi siano mai quei visi, quegli occhi che lo guardano nel buio “lo definirei un teatro” si risponde. Ed ecco in fondo alla scena apparire un lungo, grande specchio che raddoppia l’immagine della sala. A una a una si aprono le porte e a uno a uno entrano i personaggi che affiancano Gifuni, le luci si accendono anche in platea ed eccoli tutti in fila alla ribalta. Per dirci che tutto quello che abbiamo visto e sentito ci riguarda. Vero Herr Freud?
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Repliche fino all’11 marzo 2018
Freud
o l’interpretazione dei sogni
di Stefano Massini
riduzione e adattamento Federico Tiezzi e Fabrizio Sinisi
regia Federico Tiezzi
scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca
luci Gianni Pollini, video Luca Brinchi e Daniele Spanò
movimenti Raffaella Giordano, preparazione vocale Francesca Della Monica
trucco e acconciature Aldo Signoretti
con (in ordine alfabetico) Umberto Ceriani, Nicola Ciaffoni, Marco Foschi, Giovanni Franzoni, Elena Ghiaurov, Fabrizio Gifuni, Alessandra Gigli, Michele Maccagno, David Meden, Valentina Picello, Bruna Rossi, Stefano Scherini, Sandra Toffolatti, Debora Zuin
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa